Il "dovere" di non "dimenticarli"

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e le mani "povere" degli "haitiani"

Bimba di Haiti in ospedale: un ricordo e una preghiera, per un nuovo inizio di speranza...

Marina Corradi
("Avvenire", 31/1/’10)

«In questo momento siamo ancora presi dai "lavori" più immediati: seppellire i morti, recuperare i corpi sotto le "macerie", visitare le "vittime", rispondere alle innumerevoli richieste di "aiuto". Venti giorni dopo, i "riflettori" cominciano a spegnersi. Gli "haitiani" saranno ancora una volta dimenticati?». È quasi una "lettera" da Haiti, l’"intervista" al "Nunzio Apostolico" Bernardito Auza. "Lettera" di dolore e di speranza, come intrisa delle immagini, delle facce, delle "rovine" che il "Nunzio" affronta ogni mattina. Ormai i "giornalisti" e le "troupe" dei "net-work internazionali" se ne sono quasi tutti andati; e il "clamore" dell’"apocalisse" lascia il posto a una "quotidianità" miserabile e oscura (dalla quale vengono fatti emergere, spesso ingigantiti ad arte, solo gli episodi di "violenza"). E come in una famiglia in cui ci sia stato un "lutto", è quando gli "ospiti" dopo il "funerale" se ne vanno e si torna a casa, soli, che si fronteggia davvero il "dolore" e il "vuoto". Nelle "parole" di Auza si respira questo timore di "abbandono", mentre attorno a lui Port-au-Prince è perfino al di sotto del "ground-zero". Perché "ground-zero" è la terra rasa e "annientata". Quella città invece è montagne di "macerie", e corpi, sotto, ancora inestricabilmente "avvinghiati" ai "detriti". È terra di "caos", e di "miracoli": dove tre giorni fa, quindici dopo il "terremoto", una ragazza di sedici anni è stata estratta viva dalle "rovine". (Quindici giorni in una "nicchia" di cemento, che deve esserle sembrato un "loculo", in un incubo infinito. Una bottiglia di "limonata", chissà come, in mano, "centellinata" goccia a goccia. E per due settimane solo il "buio": quindici giorni, fatti soltanto di "notti". Poi, quella fessura di "luce", quelle braccia protese verso di lei. Deve essere stato come "nascere" di nuovo. La terra "spezzata" e sconvolta di Haiti ha restituito, quasi "dato alla luce" una ragazzina.) "Miracoli" grandi e "miracoli" piccoli, che potresti sbadatamente dire "banali". Le "cronache" da Haiti raccontano che per le strade di Port-au-Prince sono comparsi dei "barbieri ambulanti": una sedia, il rasoio, e si lavora. E che nelle poche "botteghe" aperte la gente compra chiodi. E che si fa la coda per "ricaricare" il cellulare alle batterie "portatili", sui "carretti". Farsi la barba, riparare un letto, comunicare: piccoli essenziali bisogni si fanno strada fra le "rovine". La vita che vuole riprendere, dai suoi gesti più "umili". (Sembra di vedere un torrente che, sbarrato da una frana, lentamente si scava altre "vie", per "rivoli" sottili tende di nuovo alla sua meta).
Ma questa istintiva domanda di vivere di un "popolo" – di vivere ancora – non può farcela da sola. Il "Nunzio" auspica un "Piano Marshall" per Haiti, come fu per l’Italia e l’Europa distrutte e in ginocchio alla fine della "guerra". Un "Piano" ampio, coordinato, di lungo respiro. Che pensi alle strade, ma anche alle scuole, e agli ospedali. In una "ricostruzione" che strappi questa terra a un destino di "sotto-sviluppo" cui finora è stata come inesorabilmente condannata.
«Saremo ancora una volta dimenticati, ora che si sono spenti i "riflettori"? Non sarebbe una sorpresa, se fosse così», dice, sincero e disarmante, il "Nunzio". Memore della "sotto-missione" di una gente che sente "sua" a endemiche "povertà", a "Governi" iniqui, a forzate "migrazioni" per sopravvivere. È una "frase" da "popolo di poveri" quella pronunciata da Auza: se ci si dimenticasse di noi, non sarebbe una sorpresa. E però, che accorata "preghiera": non si spenga, insieme ai "riflettori", la "solidarietà" per la nostra gente. Domanda semplice, "umile", di chi non ha più niente. Come una mano tesa e "vuota". Anche se i "titoli" ormai parlano d’altro, e non è più "notizia" lo "sfacelo" di Port-au-Prince, la mano "vuota" della gente di Haiti, dietro, ormai nel "cono d’ombra" dei "media" e dell’"emozione" collettiva, attende. Fedele e ostinata, come un "povero" vero sulla soglia di una casa "agiata". Che non grida, non bussa, ma tenace aspetta: che la porta si apra, che qualcuno finalmente lo veda e lo accolga.