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Memoria dei morti in Cristo
(Audio)

La vita non è tolta, ma trasformata


La morte none più la stessa cosa dopo che Cristo l'ha subita, dopo che egli l'ha accettata e penetrata, co­sì come la vita, l'essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté venire a contatto, e di fatto venne, con l'essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come «inferno», rovescio dell'esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire il compa­gno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudi­ne mortale della sua angoscia nell'orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perche mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre soli­tudini.

Si da un'angoscia – quella vera, annidata nella pro­fondità delle nostre solitudini – che non può essere cacciata via mediante la ragione, ma solo con la presen­za di una persona che ci ama. Quest'angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma solo l'estraneità della nostra solitudine ultima.. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa con­dizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miraco­lo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? (...)

Una cosa è certa: si da una notte nel cui abbandono buio non penetra parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la por­ta della morte. Tutta l'angoscia di questo mondo è in ul­tima analisi l'angoscia provocata da questa solitudine. Per questo motivo nell'Antico Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l'inferno: sheol. La morte infatti è so­litudine assoluta. Ma quella solitudine che non può esse­re pin illuminata dall'amore, che e talmente profonda che l'amore non può accedere ad essa, è l'inferno.

«Disceso all'inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la por­ta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungi­bile ed inaccostabile della nostra condizione di solitu­dine. Questo sta a significare però che anche nella not­te estrema nella quale non penetra alcuna parola, si da una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell'uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. L'inferno è stato vinto dal momento in cui l'amore è penetrato in esso e la terra di nessuno della solitudine stata abitata da lui. Nella sua profondità l'uomo non vive di pane, ma nell'autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e può amare. A partire dal mo­mento in cui nello spazio della morte si da la presenza dell'amore, allora nella morte penetra la vita: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non é tolta, ma trasformata» prega la Chiesa nella liturgia funebre.

 

J. Ratzinger, Sulla settimana santa, pp. 34-37.