Macapá, storia di una missione
La città di Macapá, capitale dello stato di
Amapá, nel nord del Brasile,
è esplosa demograficamente in pochi decenni.
Nel 1948, quando vi giunsero i primi padri del Pime,
"pionieri" della missione, era un villaggio di circa 3.000 abitanti.
Oggi Macapá supera il mezzo milione di abitanti, con tutti i problemi
che un’urbanizzazione così rapida comporta. Com’è cambiata la missione?
Il confronto tra una testimonianza di oggi e un racconto di ieri ci aiuta a
capirlo.
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In Brasile: nuove e vecchie "forze" della Missione di Macapá! |
P. Aleandro Castrese e P. Lino Simonelli
("Missionari del Pime", Marzo 2007)
Padre Aleandro Castrese ci racconta l’oggi della "sua" missione a Macapá. Solo uno degli aspetti di una realtà incredibilmente sfaccettata.
Amici carissimi, da un anno e qualche mese mi trovo di nuovo a Macapá. Sono
molto contento di essere tornato qui. Attualmente lavoro nella parrocchia di
Nossa Senhora do Rosário, insieme ad altri tre padri: Roberto Gazzoli,
Arcangelo Vanin e Alessandro Pezzotti.
La parrocchia è molto grande, formata da 22 chiese e 4 cappelle, e per questo
in febbraio sarà divisa in due. Oltre al lavoro in parrocchia, particolarmente
con i giovani, i catechisti e le famiglie, mi occupo dell’animazione
vocazionale diocesana e del Pime.
La parrocchia è nata dieci anni fa. La maggior parte dei fedeli non è
originaria di Macapá. Moltissimi provengono da numerosi stati del Brasile,
perlopiù dalle campagne, dove praticavano l’agricoltura e vivevano dei suoi
frutti. Sono venuti qui alla ricerca di un lavoro e con la speranza di vivere
una vita migliore. Ma, purtroppo, per tanti la speranza si è rivelata solamente
una semplice e ingenua illusione.
Molti di voi ricorderanno l’Italia tra gli anni Cinquanta e Settanta! Bene,
anche Macapá è cresciuta molto rapidamente e senza un piano di sviluppo
adeguato per accogliere tante famiglie. Ciò ha favorito l’impoverimento della
popolazione. Si vive precariamente, giorno dopo giorno. Ma, soprattutto, si
avverte tra gli adulti e i giovani un senso di smarrimento e la mancanza di
riferimenti autentici. Infatti, c’è una forte dispersione di carattere
culturale e religiosa: l’ambiente estraneo e anonimo, i labili e frantumati
rapporti familiari, il lavoro precario, la forte e instabile situazione
economica, la fede, tuttora ancorata a forme di superstizione, e, non da ultimo,
il clima culturale moderno marcatamente consumistico e "nichilista",
hanno spinto molti cristiani, che si dicevano "cattolici", a lasciare
la Chiesa e a trovare conforto tra le numerose e sconosciute chiese evangeliche
che ogni giorno nascono su tutto il territorio. Sono certo che molti vi
aderiscono perché trovano in esse quel calore che, per certi versi, è venuto
meno nelle nostre comunità cristiane.
La Chiesa, tuttavia, è e rimane ancora un importante punto di riferimento e una
casa in cui tutti, cattolici, evangelici e non, possono trovare aiuto e
conforto.
Così, carissimi, mi sembra che il lavoro più urgente che il Signore mi chiede
sia quello di ricostruire umilmente il tessuto umano e cristiano del popolo. È
necessario, diceva il mio amico monsignor Luigi Giussani, che l’avvenimento
cristiano, la passione, morte e risurrezione di Cristo, ritorni ad essere
presente nel cuore della gente. Con tutti i padri del Pime e in comunione con la
tutta la Chiesa di Macapá, stiamo tentando di testimoniare quell’amore vero
che il Papa ci ha richiamato nella sua Enciclica: all’inizio dell’essere
cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con
un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e, così,
una direzione precisa.
A voi, che ci accompagnate dall’Italia, chiedo semplicemente di pregare per
noi.
Ripercorriamo gli inizi della missione attraverso le parole di padre Lino Simonelli, uno dei primi missionari del Pime giunti con padre Aristide Pirovano in Amapá il 12 maggio 1948. Ecco Macapá con gli occhi di allora.
«Era un grosso villaggio con casupole di legno, fango e paglia, tutte raccolte
attorno alla cattedrale, costruita dai portoghesi nel 1761, di terra pressata.
Non c’era un solo ponte e per passare gli "igarapé" (piccoli corsi
d’acqua) che attraversavano tutto l’abitato si camminava sui tronchi d’albero
traballanti. Io camminavo a quattro zampe, i bambini ridevano [...].
All’inizio si inventava ogni giorno qualcosa di nuovo per annunziare Gesù
Cristo e andare incontro al popolo. Padre Pirovano aveva questa grande qualità:
dava la massima libertà. Voleva che ciascuno inventasse qualcosa, si esprimesse
al meglio in campo religioso e sociale. Padre Cerqua e padre Basile venivano dal
sud Italia e sentivano la tradizione delle missioni popolari. Avevano una grande
croce costruita da fratel Mazzoleni, la piantavano da qualche parte e
predicavano per le strade. La gente accorreva numerosa al suono di una
campanella. Uno faceva l’ignorante e poneva domande e obiezioni, l’altro
faceva il sapiente e rispondeva. Era una drammatizzazione del catechismo, una
specie di teatro, non c’erano altri diversivi. Poi si pregava.
Padre Vittorio Galliani veniva da Milano e aveva nel sangue la tradizione dell’oratorio.
Fin dal primo giorno disse: "Qui ci vuole un oratorio!". Incominciò
con un bel campo da pallone e i ragazzi venivano da tutte le parti, poi le
"filmine", gli incontri di catechismo. Quando abbiamo fatto il primo
film (a otto millimetri) sulla vita di Gesù, uomini e donne piangevano di
commozione, persino il governatore Janarí piangeva. All’inizio il mio
ministero era di visitare le famiglie e mi rendevo conto che non c’era il
matrimonio: si mettevano insieme, facevano figli e poi si lasciavano per unirsi
ad altri. Abbiamo fatto una campagna per il matrimonio in chiesa: giravamo per
le capanne, una ad una, per sentire la situazione familiare, discutere,
convincere».
P. Piero Gheddo, «Pime 1850-2000: 150 anni di missione in
Brasile»,
ed. Emi, Bologna 2000