DAL BANGLADESH

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P. FRANCESCO RAPACIOLI, Missionario in Bangladesh.

È soltanto quando sappiamo fare spazio all’altro dentro di noi
che possiamo dirci missionari.
L’esperienza di padre Francesco Rapacioli,
impegnato nel dialogo interreligioso in Bangladesh.

P. Francesco Rapacioli
("Missionari del Pime", Aprile 2007)

Tra i vari impegni che svolgo, dalla responsabilità nei confronti della comunità del Pime in Bangladesh a quello formativo nei confronti di consacrati e personale sanitario, dal lavoro al centro di accoglienza per gli ammalati di Rajshahi all’impegno nel campo del dialogo ecumenico e interreligioso, mi sembra che sia proprio quest’ultimo a esprimere maggiormente il mio essere missionario in questo paese.
Con questo non voglio dire che non sia importante il compito di animazione di una comunità missionaria come quella del Pime in Bangladesh, l’accompagnamento spirituale di consacrati o il servizio nei confronti dei più poveri e degli ammalati del centro di Rajshahi. Voglio solo dire che l’impegno in termini di dialogo, pur essendo l’ultimo in ordine di tempo, è quello che sento più missionario in questo contesto.
Molte volte si identifica il missionario con colui che serve i poveri e non può che essere così. Soprattutto in Bangladesh, che nonostante la rapida crescita economica, rimane il paese più povero dell’Asia e uno dei più poveri nel mondo.
Un’altra immagine comune che si ha del missionario è quella dell’evangelizzatore, di colui che annuncia l’Evangelo a coloro che non lo conoscono. In Bangladesh la Chiesa è benedetta da tante conversioni soprattutto di tribali, e questo fatto è senz’altro positivo e incoraggiante.
Una terza immagine del missionario, più inusuale e in fondo nuova, è quella di colui che è impegnato nel campo del dialogo con le altre comunità cristiane e religiose. Rispetto a questo nuovo modo di essere missionari ci sono anche sospetti qualche volta giustificati. «Le religioni sono tutte uguali» si dice, mentre chi cerca di approfondire culture e religioni si accorge che è vero il contrario.
No, non sono possibili scorciatoie o facili accostamenti tra le grandi fedi universali, che appaiono ultimamente irriducibili. È vano e persino pericoloso il tentativo di ridurre o appiattire le differenze. Ma se non è legittima questa operazione, su che cosa si può fondare un rapporto che appare necessario e decisivo addirittura per il futuro dell’umanità?
A ragione qualcuno ha detto che la fondamentale differenza all’interno dell’umanità, al di là delle fedi e delle culture, rimane quella tra uomini e donne, e non sembra che questa differenza sia particolarmente conflittuale, anzi. A parte gli scherzi, perché non pensare alle differenze come a una risorsa, una possibilità di crescita? Certo che qualche volta il dover imparare una lingua straniera appare ostico e difficile, ma una volta entrati nell’universo culturale che questa lingua esprime, il proprio mondo si dilata. Oltre che con i suoni, inizialmente estranei e incomprensibili, si diventa familiari con un altro modo di vivere e di pensare che non può che arricchirci e renderci più universali. Questa è senz’altro l’esperienza del missionario estero, di colui cioè chiamato a vivere la propria avventura umana e di fede tra altri popoli, culture e religioni.
Ma il vivere in un paese diverso dal proprio non è sufficiente. Come ha scritto qualcuno, non c’è davvero rispetto dell’altro finché non abbiamo saputo fargli posto nella nostra visione della fede. È soltanto, in altre parole, quando sappiamo fare spazio all’altro dentro di noi che possiamo dirci missionari. Ma come?
Secondo me è possibile un incontro fecondo tra persone appartenenti a diverse fedi non a partire dalla fede in quanto tale, ma dalla spiritualità, cioè dal modo in cui le persone vivono tale fede e ultimamente la propria vita. Il dialogo non avviene infatti tra sistemi, ma soltanto tra persone e popoli che vivono una determinata fede, in un determinato luogo e tempo. Solo allora il modo di vivere dell’altro mi interpella e mi può addirittura cambiare.
È forse proprio questo il punto: concepire la fede non semplicemente come un’appartenenza, ma come un cammino mai concluso. Se la fede diventa un cammino di conversione personale, allora il cammino che colui che appartiene a un’altra comunità compie non mi è estraneo. In tal modo, coloro che vivono la propria fede si incontrano e possono edificarsi e purificarsi a vicenda.
È proprio a partire da questa intuizione che abbiamo organizzato da circa un anno incontri ecumenici e recentemente, per la prima volta, un ritiro interreligioso con una comunità musulmana sufi. Il modo nel quale un musulmano crede e si abbandona al proprio Dio, rappresenta un richiamo anche per me, chiamato a fare altrettanto nei confronti di Cristo. Ancora: il rapporto tra fede cristiana e opere, e cioè il problema della giustizia di fronte a Dio, costituisce un tema estremamente stimolante tra credenti in Cristo appartenenti a diverse chiese, ecc.
Certo il dialogo è un termine e un impegno molto più vasto e articolato, ma questo scambio a livello spirituale che nasce dalla conversione personale degli interlocutori ne è un aspetto essenziale. Si può infatti anche tentare di convivere nel modo più civile possibile o collaborare con persone di altre comunità in varie iniziative e opere, prescindendo però ultimamente dalla propria fede. Il dialogo ecumenico e interreligioso a livello spirituale invece permette uno scambio e un arricchimento reciproco a partire dalla fede in quanto tale.