Quei profughi
interrogano il mondo intero
Giulio
Albanese
("Avvenire",
15/11/’07)
Mogadiscio
è un inferno e la gente fugge in massa in cerca di salvezza. In altri tempi, è
bene rammentarlo, la capitale somala era incantevole; ma oggi è ormai ridotta
ad un cumulo di macerie. Quei pochi edifici che rimangono in piedi sono il
nascondiglio preferito dei "cecchini" che colpiscono in qualsiasi ora
della giornata. Nel frattempo le forze etiopiche, che sostengono il presidente
Abdullahi Yusuf, sono impegnate in un "rastrellamento" a tappeto con l’intento
di scovare armi e munizioni dei gruppi antagonisti di matrice "fondamentalista",
legati alle ex "Corti", fautrici della "sharìa" (la legge
islamica). Una cifra, da sola, fotografa la tragedia del Paese: secondo i dati
resi noti dalle "Nazioni Unite", nelle ultime due settimane almeno
altre 173mila persone hanno abbandonato la capitale, dove manca di tutto: dall’acqua
al cibo, dalle medicine all’elettricità. E come al solito sono i civili a
pagare il prezzo più alto. I fuggiaschi sono praticamente allo sbando,
costretti a trascorrere le notti all’addiaccio lungo i bordi delle strade che
percorrono per salvare la pelle. Da quando l’ex "premier" Ali
Mohammed Gedi ha rassegnato le dimissioni dal suo incarico – sfiduciato da 22
dei suoi ministri e soprattutto in seguito ai reiterati contrasti col presidente
Yosuf – le tensioni sul campo si sono acuite e il governo di transizione è
sempre più delegittimato nel proprio ruolo istituzionale.
Intanto, la stragrande maggioranza della gente considera la presenza dei
militari etiopici sul territorio somalo come una vera e propria ingerenza negli
affari interni del proprio Paese. Come già scritto in altre circostanze su
questo giornale, il dramma che si sta consumando a Mogadiscio e dintorni è la
cartina di tornasole del malessere che attanaglia l’intero Corno d’Africa.
Le rinnovate tensioni tra Etiopia
ed Eritrea,
la crisi del Darfur,
le rivalità tra quei poteri più o meno occulti che si contendono il controllo
dell’immenso bacino petrolifero continentale – unitamente al controllo delle
rotte dell’"oro nero' e al diffondersi di un certo estremismo che usa in maniera
irresponsabile la religione per perseguire i propri scopi politici – sono
tutti elementi che condizionano fortemente lo scenario politico interno della Somalia.
Sta di fatto che la linea di faglia tra Oriente e Occidente, che attraversa l’intera
regione, manifesta i suoi punti di maggiore criticità soprattutto nell’emergenza
umanitaria.
È stato toccante e drammatico leggere ieri l’appello di monsignor Giorgio
Bertin, vescovo di Gibuti e "Amministratore apostolico" di Mogadiscio,
lanciato dall’agenzia missionaria "Fides". Il prelato ha ricordato
che il numero degli sfollati è praticamente raddoppiato nel giro di pochi mesi.
«In Somalia erano circa 400mila. Da marzo ad oggi sono aumentati di altre
400mila unità, portando il totale a 800mila», ha detto, precisando che la
popolazione è ormai ridotta allo stremo mentre i combattimenti proseguono ad
oltranza.
Nel suo ultimo rapporto sul Paese, il "Segretario generale" delle
"Nazioni unite", Ban Ki-moon, ha affermato che al momento non vi sono
le condizioni per il dispiegamento in quella zona di una forza di pace dell’"Onu",
ribadendo il sostegno a una fantomatica forza "panafricana", a dir
poco insignificante. A riprova che è stata finora latitante una forte volontà
politica di risolvere, in sede internazionale, una crisi che potrebbe
contaminare l’intero continente.