La
testimonianza di una giovane birmana:
«I monaci sono stati imprigionati perché chiedevano democrazia e libertà.
Molti hanno subito torture, ad altri sono stati inoculati "virus"
letali».
Paolo
M. Alfieri
("Avvenire", 9/12/’07)
Guidato da un regime militare
che non concede spazio ad alcun tipo di opposizione e che resta isolato sul
piano internazionale, il Myanmar è costantemente citato come esempio negativo
dalle organizzazioni che difendono i diritti umani per le violazioni che
avvengono nel Paese.
Negli occhi di tutti ci sono ancora le immagini delle recenti proteste di strada
di monaci e studenti, selvaggiamente picchiati e imprigionati per aver
manifestato e inneggiato alla democrazia nell’ex Birmania.
Così nel Myanmar
è tornata la paura, unita alla sensazione che un cambiamento è ancora molto di
là da venire.
«Provate a immaginarvi una "gabbia mentale".
Qualcosa che ostruisce il cervello, che non permette alle idee non solo di
circolare, ma perfino di nascere.
Qualcosa che non consente di agire, e rende pressoché impossibile sperare.
Ecco, immaginatevi tutto questo. E poi moltiplicatelo per i 45 anni di dittatura
e oppressione che abbiamo vissuto. Anche così avrete soltanto una minima idea
di quello che prova la mia gente».
È una giovane proveniente dall’ex Birmania a descrivere così ad
"Avvenire", a condizione di mantenere l’anonimato, la difficile
situazione di un popolo oppresso. Occhi piccoli e svelti, le mani che
accompagnano le parole con movimenti rapidi, la nostra interlocutrice sa di
rappresentare «un’eccezione», un esempio di quella minoranza «che è
riuscita ad aprire gli occhi su una realtà triste». Il punto, secondo lei, è
che la stragrande maggioranza dei 58 milioni di suoi concittadini «non ha gli
strumenti per rendersi conto di ciò che sta accadendo, non sa perché monaci e
studenti sono scesi in strada a protestare: anzi in tanti, soprattutto nelle
zone più remote, non sanno nemmeno che quelle manifestazioni abbiano mai avuto
luogo». E non sa, inevitabilmente, che «quei monaci, quegli studenti sono
stati imprigionati e picchiati perché chiedevano democrazia, libertà,
giustizia, rispetto per i diritti umani. A molti, in prigione, non sono state
risparmiate le torture, ad altri sono stati addirittura inoculati "virus"
letali». E riprende: «La mancanza di possibilità di accesso all’istruzione,
la povertà e l’ossessiva censura del regime sono elementi che concorrono a
tenere la popolazione al più basso livello di coscienza della propria
condizione. Per la politica, inevitabilmente, c’è poco spazio e poco tempo».
La mancanza di lavoro, causata anche dalla presenza della manodopera cinese a
bassissimo costo, sta riducendo in molti alla fame e l’emigrazione è un
fenomeno ormai inarrestabile. «Chi ha fame – osserva ancora la giovane
birmana – può permettersi forse un giorno di protesta, ma il giorno dopo
sarà costretto a tornare nei campi. Non è un caso che, anzi, tante persone non
abbiano condiviso le manifestazioni contro il regime, con la motivazione che
tutti quei disordini rallentano le attività di raccolta». La censura, unita
alla paura, fa il resto. «In pochi osano parlare liberamente al telefono,
perché le linee sono sotto controllo. Molti "siti Internet", come
"Yahoo", sono oscurati. È vero che passando attraverso alcune
"piattaforme Web" si riesce a far filtrare notizie all’esterno e a
sapere anche come il mondo si muove nei nostri confronti, ma questo è un
"privilegio" che possono permettersi in pochi. Come in pochi,
purtroppo, sono quelli che credono che un cambiamento nel Paese sia davvero
possibile».