Domani la consegna del premio «Cuore Amico».
Padre Danilo
Fenaroli, del "Pime", opera in Camerun.
Le sorelle Gianpaola e Giuliana Gorno, "dorotee", in Argentina.
Erica Tellaroli nel Perù.
Saranno loro a ricevere il riconoscimento, giunto alla 17 ª edizione.
Laura
Badaracchi
("Avvenire",
12/10/’07)
Ha un nome significativo, il
centro sorto a Mouda, nel nord del Camerun,
dove vengono accolti giovani disabili fisici e mentali e non solo. Si chiama
«Betlemme» e proprio qui tante vite rinascono per la seconda volta: quelle dei
sordomuti che vanno a scuola, dei neonati abbandonati che hanno un asilo nido,
dei ragazzi che imparano un mestiere negli otto laboratori di formazione
professionale. Qui si formano giovani falegnami e carpentieri, scultori del
legno e sarti, saldatori e agricoltori.
È una sorta di cittadella, la "Fondazione Bethleem", nata nel 1998
dall’intuizione di padre
Danilo Fenaroli,
classe 1947, originario di Predore (Bergamo). Il missionario del
"Pontificio istituto missioni estere" è uno dei vincitori del Premio
"Cuore Amico" 2007.
Il riconoscimento, promosso dall’omonima associazione bresciana a partire dal
1991, viene assegnato ogni anno nel mese di ottobre – a ridosso della
"Giornata missionaria mondiale" – a testimoni del Vangelo impegnati
a fianco degli ultimi «attraverso la condivisione della povertà e il lavoro
finalizzato alla loro crescita e autonomia, nel rispetto di ogni cultura e
tradizione». Un obiettivo che si realizza «attraverso iniziative comunitarie
non di pura assistenza ma di autentica promozione umana a vari livelli»,
spiegano gli organizzatori dell’iniziativa. Definito «Nobel missionario», il
premio sarà consegnato domani alle 10 nel "PalaBrescia" della città
lombarda a suor Gianpaola
e suor Giuliana Gorno
– sorelle, entrambe della congregazione delle "Dorotee di Cemmo",
missionarie in Argentina
– e ad Erica Tellaroli,
che in Perù
spende la sua vita accanto ai malati terminali. «Ho visto persone incatenate,
perché i familiari temevano la loro aggressività; ne ho viste altre
abbandonate a causa della loro follia e bambini condannati a morire perché
creduti posseduti dal demonio. Ho pensato che bisognasse fare qualcosa»,
racconta con semplicità padre Danilo, riflettendo sulla fretta che spesso
caratterizza le relazioni, gli incontri qui in Italia: «Qualche volta sarebbe
utile fermarsi per aspettare chi è rimasto indietro. Il mondo sembra una gara
di corsa allo stadio: tutti guardano e fanno il tifo per i primi, ma nessuno si
preoccupa dei "doppiati"». Ma padre Fenaroli non è solo in quest’opera
che accoglie persone di ogni etnia e confessione religiosa: lo affiancano una
cinquantina di operatori, l’associazione internazionale dei "Silenziosi
operai della Croce" e la "Caritas" locale, oltre ai suoi
confratelli del "Pime". Il «lavoro di squadra» caratterizza anche l’esperienza
di suor Gianpaola, settantenne bresciana, che si ritrova a svolgere il servizio
di «parroco» in Argentina, dov’è approdata nel 1964. In una cappella di
Berazategui inizia a operare nel campo dell’assistenza, della promozione umana
e dell’evangelizzazione; nel 1990 la cappella – che conta ormai 15 mila
persone, originarie anche del Paraguay, della Bolivia e delle "Villas
Miseras" di Buenos Aires – diventa la parrocchia di Nuestra Señora de
Itatì e il vescovo, Jorge Novak, chiede alla superiora generale delle "Dorotee
di Cemmo" che la religiosa possa assumere il ruolo di guida della
comunità. L’anno dopo suor Gianpaola viene raggiunta dalla sorella Giuliana,
di due anni più giovane, che l’affianca nell’assistenza ai poveri e alle
famiglie, avviando anche una scuola di taglio e cucito poi trasformata in
cooperativa. Ora il prossimo obiettivo è quello di realizzare un "Centro
giovanile" di accompagnamento, formazione e prevenzione. Anche Erica
Tellaroli, 33 anni, ha sperimentato la bellezza della vicinanza ai sofferenti,
in collaborazione con l’ospedale di Chacas, costruito e gestito dall’"Operazione
Mato Grosso". Nel ’99 – come racconta lei stessa, ricordando i suoi
primi giorni a San Luis, sulle Ande, dopo aver lasciato Castel Goffredo
(Mantova) – «stavo accanto al letto di una giovane mamma, malata di tumore.
Mentre la assistevo, ho iniziato a chiedermi quanti potevano essere gli ammalati
sulle montagne, nei "caseiros" più isolati, senza luce né acqua o un
pezzetto di stoffa da utilizzare come benda». Allora convinse le ragazze dell’oratorio
a fare un censimento dei malati della zona: ogni sabato le catechiste si
trasformavano in infermiere. E dal 2001, a Pomallucay, Erica è responsabile di
una casa di accoglienza per malati terminali.