Il dono
della gioia è in noi come un fiume sotterraneo e profondo
che ha bisogno di uno spiraglio per affiorare.
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Suor
Marilena Boracchi,
missionaria dell’Immacolata in
Guinea Bissau
("Mondo
e Missione", Maggio 2007)
Pubblichiamo la testimonianza di suor Marilena Boracchi, delle Missionarie dell’Immacolata, resa al Centro missionario Pime di Milano nell’ambito degli incontri di Quaresima. Attualmente, dopo otto anni trascorsi in Guinea Bissau, la religiosa è responsabile del pre-noviziato del suo istituto. Il testo non è stato rivisto dall’autrice.
Nella lettera ai
Galati san Paolo dice che la gioia è frutto dello Spirito Santo, ci è data in
dono. E davvero a me pare che sia come un fiume sotterraneo in noi, una realtà
profonda che ha bisogno delle condizioni, di uno spiraglio per affiorare. È
come se debba essere liberata, accolta.
Rileggendo la situazione in cui mi sono trovata a vivere, mi ha sorpreso vedere
che la gioia ha convissuto con tantissimi sentimenti e ha reso veramente bella
la missione e l’incontro con il popolo guineano, nel quale ho riconosciuto una
predisposizione grande ad accogliere la gioia del Vangelo.
Nel 1997 ho iniziato la mia vita missionaria nella città di Bissau,
inserendomi, per quel che potevo, nel lavoro apostolico condotto dalla mia
comunità in uno dei quartieri della grande parrocchia del Bairro de Ajuda. La
città di Bissau si è fortemente popolata in questi ultimi anni, perché molta
gente ha lasciato i villaggi nella speranza di una situazione economica
migliore.
Ricordo bene l’impressione che ho avuto una delle prime domeniche partecipando
alla Messa: una chiesa stracolma di giovani… Lo specchio della Chiesa della
Guinea, una Chiesa giovane, il cui impegno principale è il primo annuncio del
Vangelo e lo sforzo per sostenere la fede di chi ha iniziato la vita cristiana.
Mi trovavo a Bissau da poco più di un anno quando siamo stati letteralmente
sorpresi dalla guerra civile, scoppiata proprio in città. Nel giro di pochi
giorni la gente è stata costretta a lasciare le proprie case per l’arrivo
delle truppe senegalesi, venute a dar man forte al presidente Vieira contro i
ribelli. In quell’esodo generale, anche noi con la gente abbiamo dovuto
lasciare la nostra casa, per rifugiarci all’interno del Paese. Le sparatorie,
infatti, si andavano intensificando, mentre la città veniva assediata.
Noi missionari, di
solito, siamo tra i pochi a disporre dell’automobile, ma in quei giorni le
strade erano presidiate e le macchine non si potevano usare. Di solito
organizziamo aiuti, siamo un punto di riferimento sicuro; in quell’occasione
non lo eravamo affatto, perché non sapevamo nemmeno che strada prendere nei
campi per uscire dalla capitale. Normalmente ci facciamo in quattro per aiutare;
lì ci hanno aiutato a cavarcela per camminare al buio nelle risaie. Alla fine,
in mezzo a tutta quella gente, ci sentivamo come tra parenti!
È stato un inizio drammatico anche per le vicende che si sono succedute:
abbiamo visto un Paese paralizzato e al limite della sopravvivenza, con tante
persone morte. Però nella mia vicenda personale si è trattato anche di un
momento luminoso, che mi è stato di aiuto nell’affrontare le difficoltà
successive.
C’erano in me tanta paura e un grande senso di impotenza: l’idea di poter
diventare un’eroina della missione impallidiva decisamente! Il mio eroismo
consisteva al massimo nel prendere per mano i bambini e camminare con loro,
attenti a non inciampare. Poi ho capito che lì stavo vivendo la missione, che
la mia missione era proprio lo stare lì, quasi gustando l’occasione di
condividere la vita della gente, la loro sorte, senza troppi ragionamenti che,
in quel momento, non ci erano richiesti. Ho capito che quel modo di stare era
anche amore per quelle persone che ancora mi erano estranee eppure tanto vicine;
era il mio sì al Signore e alla mia vocazione, come Lui la stava pensando. Era
uno stile di missione che non avrei immaginato, ma che sentivo mio. Ecco, credo
che la gioia sia affiorata e aveva tanti nomi: una serenità profonda nel cuore,
un desiderio di affidamento al Signore, la disponibilità ad attendere per
cercare di capire ciò che succedeva, il sentire che veramente Dio ci custodiva.
Nei mesi successivi abbiamo potuto fare tanto, come missionari, per aiutare gli
sfollati rifugiatisi all’interno, soprattutto nella zona di Mansoa. È stato
un momento di grande comunione tra missionari che provenivano dalle varie zone e
tante persone del posto veramente ammirevoli: si aiutava tutti, senza
distinzione, e questo è stato capito e apprezzato.
Negli anni seguenti la
mia missione si è svolta a Bissorà, nell’interno del Paese, dove a noi
Missionarie dell’Immacolata è stata affidata la cura pastorale della
parrocchia, non essendoci un sacerdote residente. È un territorio molto ampio,
con circa 200 villaggi, oltre al piccolo centro.
La missione in Guinea ha una sua bellezza: apre la possibilità a diversi tipi
di impegno con esperienze molto belle, a diretto contatto con la gente. Tutte
noi (tre o quattro suore) siamo impegnate nella catechesi: anzitutto il primo
contatto con chi chiede di accostarsi al cammino cristiano, quindi l’annuncio
del Vangelo, poi la preparazione al battesimo e la cura pastorale. Tutto questo
si svolge nei villaggi e nel centro, dove si trova la missione. Ciascuna di noi,
inoltre, è impegnata in un’attività sociale: io mi sono occupata della
formazione dei maestri delle scuole dei villaggi in autogestione.
Sono stati anni intensi, belli e anche difficili, per il continuo sforzo di
adattamento, di comprensione della realtà e anche di ri-comprensione di
me stessa nell’incontro con questa realtà sempre nuova.
Ciò che mi ha colpito da subito è stata la difficoltà di trovare canali di
comunicazione, e non tanto per la lingua. Siamo due mondi lontanissimi,
giudichiamo le cose da premesse diverse; noi missionari siamo pronti a fare e a
dare con molta generosità, ma a modo nostro, per cercare di risolvere, con
buone intenzioni, grandi carenze e bisogni. Dimenticando, talvolta, di
ascoltare, di osservare con pazienza, di partire dal punto di vista della gente.
Un giorno un maestro con cui collaboravo mi ha detto: «Irma, abo bu sangui
quinti», che significa: «Tu hai il sangue caldo, sei focosa». E mi sono
accorta che il desiderio di comunicare il Vangelo, di darmi da fare per Gesù
forse «bruciava troppo», creava tensione, incomprensione, più che
consolazione. Il Signore mi ha fatto fare alcune esperienze in cui ho capito che
la missione genera gioia, il Vangelo genera gioia, in Africa, ma anche per altre
strade.
Racconto qualche episodio
in cui ho approfondito quanto sto dicendo. Frequentavo un gruppo di mamme in un
villaggio dell’etnia balanta dove c’è una scuola. Queste donne
accompagnavano con interesse la vita della scuola e con orgoglio vedevano le
loro bambine fare progressi. Anche loro desideravano fare qualcosa, così
abbiamo cominciato con un piccolo corso di cucito, una bellissima occasione per
creare amicizia, conoscenza. Tra donne si parla di tante cose, si crea
familiarità e ho potuto conoscere tanto della loro vita.
Una volta, dopo il cucito, mi hanno accompagnato nel villaggio di una di loro,
che il giorno prima aveva partorito una bambina. Erano le prime ore del
pomeriggio, faceva molto caldo; eravamo immerse in un silenzio incredibile. Non
c’era nessuno intorno alla casa, tranne una bambina che cucinava fuori.
Foina, così si chiamava
la mamma, era dentro la sua capanna; dopo il parto per alcuni giorni le donne
non escono. Io ero a mani vuote, non avevo pensato nemmeno a un piccolo regalo
ed ero imbarazzata per questo, sapendo che tutto per loro è così prezioso. Lei
non si aspettava la mia visita e ha espresso tutta la sua meraviglia dicendo:
«Marilena è venuta qui e io non ho nemmeno una gallina da darle». Non avevamo
niente tutte e due e allora abbiamo potuto sederci tranquille e in pace,
raccontarci, gioire per la nuova vita, sentirci vicine in modo profondo con la
nostra umanità. Stupita, pensavo: «Ma guarda, chi sa che sei qui in questo
posto sperduto?». Nel silenzio si sentivano di più le nostre parole che si
imprimevano davvero dentro.
Certo c’era la gioia, quella gioia che nasce dalla possibilità di dare il
nostro cuore, di accogliere e di lasciarsi accogliere come si è, senza
misurarsi, senza competere. In questo villaggio, Cumbule, non ci sono cristiani,
non è ancora possibile annunciare esplicitamente il Vangelo. Ma l’esperienza
con Foina mi dice che Gesù è già presente, la vita nuova del Vangelo è già
un piccolo seme, perché c’è l’amore, la disponibilità a lasciarsi
incontrare nella propria umanità, a darsi all’altro. Incontri così suscitano
qualcosa di nuovo, altre domande per una ricerca che aiuti a liberarsi dalla
paura e che, speriamo, possa arrivare anche all’incontro personale con Gesù,
alla conoscenza di Lui.
Vivere la missione a questi livelli è sì essere collaboratori della gioia, ma
non solo: l’«altro» (in questo caso Foina) è diventato anche collaboratore
della gioia, della mia gioia, e mi ha dato coraggio.
A volte la precarietà
della vita in Guinea, la reale mancanza di tutto - di cui soffre la maggior
parte delle persone - spinge a fare qualcosa per loro, a impegnarsi in progetti
di vario tipo. Purtroppo mancano le infrastrutture e i mezzi che possono
migliorare condizioni di vita davvero disagiate. Si aggiunga poi il livello
inaccettabile dell’organizzazione sanitaria e scolastica; come si fa a stare a
guardare? I nostri impegni a favore della gente sono, quindi, tanti e si cerca
il più possibile di fare e realizzare cose nuove con loro. Però, spesso ho
avvertito un certo disagio quando le molte preoccupazioni e le cose da fare
assorbono le migliori energie e l’incontro reale con le persone viene
penalizzato. Di che cosa hanno realmente bisogno le persone? Che cosa ci
chiedono davvero?
Guardando adesso con un certo di-stacco la mia esperienza, mi sembra importante
vivere la missione curando le occasioni in cui, mentre facciamo con passione
tante cose, possiamo offrire una presenza che sa diventare compagnia, che crea
familiarità e amicizia, che permette di accorgersi e di accogliere in sé le
immense fatiche e le difficoltà quotidiane di coloro che hanno poche sicurezze
umane, ma che comunque riescono a dire spesso: «Deus i garandi, Deus qui sibi»
(«Dio è grande, lui sa»).
È importante sedersi con loro a parlare, a riflettere. È interessante
ascoltare le loro storie, anche se non finiscono mai... In Guinea è facile
visitare la gente nelle loro case: ci si siede in veranda, sui tipici seggiolini
di legno, senza alcuna formalità. Un po’ si chiacchiera, un po’ si sta in
silenzio, se si vuole si può anche dimenticare l’orologio.
L’annuncio del Vangelo,
normalmente, passa da questa strada e la Buona Notizia si comunica attraverso la
testimonianza personale che è presenza semplice, accettazione dell’apparente
perdita di tempo, creando legami con le persone, il cui destino ti interessa
sempre di più.
Dico queste cose non perché le abbia vissute in pienezza, ma perché credo che
siano uno stile di vita a cui tendere. In realtà, nella vita quotidiana,
vedendo all’opera i missionari in Guinea, in primo luogo chi scrive, notereste
un sacco di difetti: ci vedreste correre indaffarati, perdere la pazienza, dirne
di tutti i colori perché le cose non funzionano… Ma la gente sa vedere al di
là di questo: io ho fatto esperienza personale di tanta misericordia (i
numerosi problemi che affrontano hanno reso le persone forse un po’ passive,
ma anche tanto tolleranti) e, se si riconosce davvero di aver sbagliato, si
ricomincia, senza troppe spiegazioni.
La gioia allora nasce da questa vita di relazioni normali, quando a un certo
punto arrivi a dire: «È bello stare qui». Non so se è capitato anche ad
altri missionari, ma a un certo punto della vita missionaria si riceve una
specie di conferma e si dice a se stessi: «È proprio questo quello che
volevo». E si ringrazia il Signore davvero.
Un altro piccolo quadro, in un villaggio che ha ricevuto l’annuncio del
Vangelo oltre vent’anni fa. Dei molti che hanno accolto all’inizio il
cammino di Dio, pochi hanno creduto e perseverato. Ma quei pochi, in tutto tre
famiglie che ora sono cristiane, sono diventati davvero la luce sul monte, hanno
reso testimonianza che il Vangelo libera dalla paura ed è benessere per tutti.
Hanno organizzato la scuola del villaggio, assistono volontariamente i bambini
denutriti; le donne si occupano della formazione delle ragazze, i mariti aiutano
le loro mogli nei lavori di casa e nell’educazione dei figli… Piccole scelte
rivoluzionarie che rappresentano una novità di valori assunti.
L’ultimo tratto di
strada percorso con loro mi ha insegnato altre cose preziose: insieme abbiamo
promosso l’attuazione di un sistema di irrigazione goccia a goccia per
garantire una qualità di vita migliore, soprattutto per le donne costrette ad
attingere a mano l’acqua dai pozzi per coltivare gli orti.
È stato arduo arrivarci, perché è una cosa totalmente nuova, e ho capito che
il Vangelo porta frutto se si cerca la strada restando al fianco della nostra
gente: occorre fare piccoli passi insieme, rinunciando al «tutto e subito»,
alla nostra organizzazione; occorrono la calma e la pazienza di ascoltarci e
spiegarci, la fiducia reciproca e la stima che non sono scontate nemmeno da
parte nostra. Sì, davvero si è collaboratori della gioia e non padroni della
fede degli altri (come dice san Paolo) e del loro modo di esprimerla.
Il missionario collabora a far germogliare la gioia del Vangelo nei luoghi e con
i tempi che il Signore chiede: questo fa sentire non indispensabili e dà anche
pace e coraggio di ricominciare ancora, magari da un’altra parte.
L’ha capito bene Bakar, uno dei catechisti di questo villaggio, il quale
salutandomi prima della mia partenza per l’Italia mi ha detto: «Irma, bai
discansa, bu na odja, ultru na bin» («Sorella, vai a riposarti un po’,
vedrai che un altro verrà»).
Non credo che oggi si
possa pensare a una missione che non sia testimonianza dell’incontro, dello
scambio di esperienze, del riflettere insieme senza protagonismi, del creare un
clima di famiglia e di fiducia che incoraggi i cristiani nello sforzo di
integrazione tra la propria fede e la cultura tradizionale. È uno stile vicino
al cuore africano, attratto non tanto dal fare molte cose, ma dallo stare
insieme, dal parlare, dall’ascoltare, quindi aperto a una profondità feconda.
Concludo con le parole di padre Domingos Cà, vicario generale della diocesi di
Bissau e rettore del seminario maggiore. Parlando ai missionari, diceva:
«Dovete preferire il lungo cammino della fecondità di un incontro a quello
dell’efficacia immediata di un’azione personale». È una prospettiva
affascinante e ho sperimentato che può davvero portarci alla gioia del Vangelo.