Da Kimbau
I miei «Santi laici»In Africa ogni vita è frammento di eternità.
Chiara Castellani*
("Mondo e Missione", Novembre 2006)
La festa di Ognissanti è festa solenne in Congo. Lo è soprattutto nella
nostra parrocchia di san Francesco Saverio di Kimbau. Per quattro o cinque ore
danziamo e cantiamo a Dio la nostra gioia e la nostra gratitudine per il cammino
di santità che Lui ha tracciato nella vita di ogni uomo su questa terra. Certo,
non sempre è facile percorrere la strada «stretta» che Lui ci indica con
decisione come unica possibile. Occorre armarsi di tenacia, di perseveranza, e
oserei dire di testardaggine. Su quella strada irta di ostacoli ho perduto
molti, troppi amici. Molti non ce l’hanno fatta, si sono tirati indietro,
vedendosi sull’orlo dell’abisso e cercando di sopravvivere, non più
disposti a reggere i ritmi incalzanti con cui abbiamo dovuto marciare in questi
anni. Basta, è troppo duro, non me la sento più, adesso vai avanti da sola.
Peggio ancora, rinfacciandomi la pena di quel cammino, come se fossi io a
beneficiarne e non un disegno ben superiore di Dio. E mi sono spesso trovata
sola, tremendamente sola, incompresa da molti, abbandonata a me stessa e ai miei
sogni testardi.
Eppure a non farmi sentire completamente sola nelle mie battaglie, nel mio
testardo andare avanti, ci sono coloro che pur non essendoci più fisicamente,
non si sono mai tirati indietro e perciò anche ora continuano a essermi
accanto, a vivere insieme a me come frammenti di eternità che si reincarnano
nell’eternità del cammino.
Sono quegli amici di cui mi è sacra la memoria e che un giorno ho definito
«santi laici», anche perché almeno a parole la maggioranza di loro si
definiva non credente, eppure credevano molto più di chi si riempie la bocca
con tanti fariseismi: credevano nel Dio della giustizia perché credevano nell’uomo
che lotta per la giustizia; credevano nell’eternità perché credevano nella
vita e la amavano e ne percepivano l’essenza eterna. Quei «santi», senza
aureola né litanie nel loro silenzioso martirio, non sono meno martiri. Lo sono
stati per me Pierre, Tonino, Rosy, Maria Bambina, il dottor Richard, che hanno
scelto di non fuggire di fronte al calice che hanno bevuto fino in fondo,
lasciando sul cammino dell’eternità l’impronta indelebile della loro croce.
E proprio per la concretezza del loro martirio, per l’inequivocabilità della
croce su cui sono morti inchiodati, li sento accanto a me, so che non mi hanno
abbandonato, so che continuano a restarmi accanto e a vivere nell’eternità su
cui è tracciato il cammino. Perché ciò che conta in Africa è che ogni vita
è un frammento di eternità, di cui tutti noi facciamo parte, insieme a coloro
che ci hanno preceduto indicandoci con chiarezza la strada. C’è una
continuità tra vita e morte, tra visibile e invisibile; un legame di
appartenenza che va oltre l’apparenza, che è intrinseco all’essere stesso
dell’africano, e che unisce i viventi a coloro che non ci sono più.
Sono loro quegli antenati la cui anima invochiamo all’inizio di ogni
celebrazione eucaristica, e che il primo novembre quasi confondiamo con le
litanie cantate e che in Europa mi sembravano così stupide, vuote, prive di
senso. Qui rivivo in esse il recupero liturgico di quella dimensione di
eternità e di santità insita nel cammino della nostra fede.
Perché in Africa esistono due forme di esseri viventi: gli esseri viventi in
carne e ossa, con le loro santità e le loro miserie. E se le meschinità
prevalgono, si parla di loro come "muntu mpamba", l’«uomo vuoto»,
inutile. Esistono invece i "muntu muntu", gli «uomini uomini», le
persone che hanno vissuto e realizzato degnamente e integralmente la propria
natura umana e che continuano a vivere accanto a noi dopo la morte, nell’eternità
del cammino. «Hay unos muertos que nunca mueren», dicevamo in Nicaragua, e
allora scopro che sotto cieli diversi, in emisferi diversi, vivere nell’eternità,
essere frammento dell’eternità, è un privilegio dei semplici, di chi non
conosce elucubrazioni e sofismi e riceve a braccia aperte il Dio della speranza
e della liberazione.
Nell’ottimismo inguaribile dei "bayaka", tutto diviene eterno e
santo. E nella certezza di eternità anch’io vado avanti, non cedo, non mi
tiro indietro, nella convinzione che quando toccherà a me anch’io continuerò
a vivere nell’eternità del cammino.
* Medico missionario in Congo