Bernardo
Cervellera
("Avvenire",
27/9/’07)
Il sangue comincia a scorrere in Myanmar,
dove l'esercito ha ucciso almeno sei monaci buddisti e ha caricato le folle dei
manifestanti con manganelli e facendo fuoco. Il tutto sembra un
"remake" delle violenze dell'88, quando le dimostrazioni a favore
della democrazia furono soffocate con la spietata uccisione di almeno 3mila
persone e l'arresto di centinaia di attivisti democratici. La comunità
internazionale sembra aggirarsi impotente attorno allo scenario della crisi
birmana, esortando e addirittura «pregando» (sono parole dell'inviato Onu,
Ibrahim Gambari) la giunta di non ricorrere più ai metodi forti.
Anche l'impotenza del mondo è una triste ripetizione. In questi decenni si sono
registrati in Myanmar molteplici episodi e situazioni di violenza e oppressione:
dal genocidio contro le minoranze del Nord allo schiavismo e alla cancellazione
di regolari elezioni; dal controllo sui "media" agli arresti di "leader" democratici
e alle torture dei dissidenti. Eppure la giunta militare non ha mai ricevuto
alcuna condanna dalla "Commissione Onu per i Diritti umani". Perfino
l'embargo sulle armi, attuato dall'Unione Europea, è inefficace, perché in
aiuto al regime sono intervenute la Cina
- suo primo fornitore - e, da qualche tempo, la Russia di Putin, che lo scorso
maggio ha "regalato" alla giunta un reattore nucleare.
Oggi, negli Usa e in Europa si discute di incrementare le sanzioni, anche quelle
economiche, verso Myanmar. Non si sa però quanta efficacia tali misure
potrebbero avere: anzitutto perché dovrebbero essere attuate da tutta la
comunità internazionale e, poi, perché rischiano - come spesso avviene - di
colpire solo la gente comune, lasciando intatto il potere del regime. Negli
anni, i birmani si sono andati impoverendo sempre più, e larghi strati della
popolazione sono ormai ridotti a livelli di sussistenza. Ne è prova l'enorme
squilibrio fra il cambio ufficiale (1 euro per 6 "kyat") e quello al
mercato nero (1 euro per 1.790 "kyat"), il quale va a tutto vantaggio
di chi possiede divisa estera: cioè la casta militare, che nella miseria del
Paese garantisce a se stessa privilegi e prezzi speciali per cibo, carburante,
auto e case.
Affinché si possa influire sulla situazione occorre, dunque, agire sui Paesi
che sostengono la giunta. "In primis" la Cina, che collabora con
Myanmar in programmi di spionaggio elettronico per il controllo dell'Oceano
Indiano e della guerriglia birmana, ed è interessata a costruire un oleodotto
fino allo Yunnan. Quindi, l'India, che affamata delle risorse energetiche del
Paese, offre aiuti al regime fin dagli anni '90 in cambio di un "faraonico"
gasdotto che dovrebbe attraversare Myanmar e Bangladesh.
E, infine, l'"Asean" (una vasta organizzazione dei Paesi asiatici),
che con la sua politica di «non interferenza» si è garantita lo sfruttamento
delle ricchezze naturali birmane.
Resta l'Occidente, che forse possiede armi spuntate. Ma che può fare molto nei
confronti dei propri amici, che sono anche amici dei militari al potere. Per far
sì che le sanzioni "mordano" i potenti, devono costare qualcosa a
tutti noi. Perché, allora, non minacciare Pechino di boicottare le Olimpiadi se
non induce il regime di Myanmar a risparmiare al mondo una nuova Tiananmen e ad
aprire un dialogo di riconciliazione nazionale? Perché non bloccare i commerci
con l'"Asean" (che ha Ue e Usa come "partner" privilegiati) se non si
liberano i prigionieri politici birmani? E perché l'inviato Onu non va subito
in Myanmar, senza aspettare la metà di ottobre, quando la rivolta potrebbe
essere già stata soffocata nel sangue?
Per tali gesti, assai onerosi, bisogna avere a cuore il destino dei popoli
lontani almeno quanto quello della propria gente. Purtroppo, l'impressione è
che le manifestazioni colorate dal rosso dei bonzi, il rosa delle monache e
l'oro delle pagode, suscitino soprattutto emozioni esotiche e curiosità
estetica. A Yangon, Mandalay e Sittwe, invece, la marcia dei birmani ha
decretato senza appello che la giunta militare è «nemica del popolo».