In un secondo, sulla montagna

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IL MONTE BIANCO (Valle D'Aosta).

Marina Corradi
("Avvenire", 25/7/’08)

È il più crudele dei destini, quello toccato alla donna olandese che ieri sul Monte Bianco ha visto precipitare nel vuoto il marito e i tre figli adolescenti. Un momento prima saliva con loro sul ghiacciaio, nella luce accecante di una giornata di sole. Un momento prima, era il "paradiso": la montagna, l’alba radiosa di luglio, e quei tre – un maschio e due femmine, fra i 17 e i 23 anni – che seguivano il padre, il passo agile sulle gambe di ragazzi. Forse la madre li guardava con intenerito orgoglio: sono grandi ormai, guarda come vanno su per queste cime. E forse a un certo punto avrà detto: andate voi, io non ce la faccio, mi manca il fiato. "Sono vecchia", avrà esclamato ridendo, e anche i figli e il marito avranno riso con lei, nel salutarla.
Come è stato? La corda che legava tutti e quattro è diventata in un istante una "catena di morte". Da duecento metri di distanza, la madre ha visto. Deve avere pensato di stare sognando. Uno di quegli incubi atroci da cui ci si risveglia sudati, con un "sussulto" grato: è stato solo un terribile sogno. Ma ieri mattina sul Bianco, dopo le urla, e l’eco che ne tornava indietro nell’assoluto silenzio, più niente. Il ghiacciaio, il sole alto sulla roccia incombente, e nessun risveglio, a dire: è stato un sogno. Il più atroce dei destini, toccato in una mattina di luglio a una donna straniera venuta da lontano per amore di quel "gigante di pietra". In un secondo, tutto le è stato tolto, dal vivo della carne. E chi ascolta questa storia fatica a sfuggire alla domanda che eternamente ritorna, davanti alle sciagure più intollerabili: al dubbio del "nulla", di un Dio che ieri mattina guardava altrove, e non s’è accorto che, nello schianto di ghiaccio e sassi a precipizio nel vuoto, dietro a quei quattro rimaneva, viva, una moglie, una madre.
Perché? Non c’è risposta che si possa dare a questa domanda. Noi non sappiamo. E se tentiamo di immedesimarci in quella sconosciuta, con paura pensiamo che a lei Dio, dei suoi volti, abbia mostrato il più terribile. Per quale "disegno"? Non possiamo sapere. Restiamo con le mani aperte e vuote, impotenti. Nessuna parola può bastare oggi a quella donna. È ciò che ne "I fratelli Karamazov" intuisce lo "starec" Zosima, di fronte a una popolana che piange il suo bambino perduto. Il vecchio monaco le ricorda che suo figlio ora è un angelo, ma la donna non smette di singhiozzare: «Ogni cosa – dice – è finita; per me è finita con tutti». E il monaco comprende che la donna non può smettere di piangere: «È Rachele che piange i suoi figli, e non può consolarsi, perché essi non sono più». «Non consolarti», le dice allora, «piangi»: «per un pezzo ti seguiterà questo gran pianto materno, ma alla fine ti si convertirà in pace e gioia».
Ci sono destini dei quali non si può non piangere fino a esserne svuotati. All’apparenza crudeli come "tagliole": ti lasciano vivo, e "mutilato". Destini che ci rivelano spietatamente la nostra impotenza: e che nulla veramente, nemmeno i nostri figli, ci appartiene.
La differenza sta nel come si fronteggia questa "mole" opaca di dolore. Si può esserne schiacciati, "annichiliti" da un Dio ai nostri occhi terribile e distratto. Si può voler morire, o lasciarsi morire. Oppure si può restare muti, senza capire – ciò che, oggi, ci è così intollerabile – e però disperatamente ostinati nel domandare. «Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri», disse il Dio dell’"Antico Testamento". L’"Apocalisse" sul Bianco sotto agli occhi di una madre ricorda a noi, padroni di tutto, che non siamo padroni di nulla. Eppure, nel non capire, chi crede può mantenersi "cocciutamente", audacemente certo. Certo che anche il più terribile dolore è per un bene più grande – e niente, di un uomo, è per il nulla.