Il Dalai
Lama: «Le stragi e le devastazioni sono terminate da decenni,
ma oggi il "regime" punta alla cancellazione dell’identità.
Ormai a Lhasa i cinesi sono maggioranza».
Tenzin
Gyatso, XIV Dalai Lama
("Avvenire",
26/6/’08)
Fin dall’inizio della lotta
per la liberazione del nostro Paese, alcune fonti hanno cercato di deformare le
nostre idee: hanno tentato di far credere che la nostra lotta mirava solo a
restaurare l’antico sistema. In realtà, le cose non stanno così. Siamo
rifugiati solo dal 1959, e nel 1962 abbiamo cominciato il processo di
democratizzazione della nostra società. Ho formato un piccolo comitato il cui
compito era di stilare la "Costituzione" del futuro Tibet.
In questa "Costituzione" ho fatto mettere una clausola secondo la
quale una maggioranza formata dai due terzi dell’"Assemblea" poteva
sopprimere le funzioni del Dalai
Lama. Nel 1969 ho
fatto una dichiarazione ufficiale secondo la quale l’istituzione del Dalai
Lama e la sua sopravvivenza dipendono interamente dalla volontà del popolo
tibetano. In uno dei discorsi che ho fatto riguardo all’avvenire del Tibet, ho
dichiarato molto chiaramente che, in un Tibet futuro, io non assumerò nessuna
funzione politica, e che il governo sarà un governo democraticamente eletto dal
popolo.
Se l’istituzione del Dalai Lama non sarà più al passo coi tempi, essa
cesserà semplicemente di esistere.
Dall’inizio dell’occupazione, una quarantina d’anni fa, i cinesi hanno
utilizzato metodi diversi a seconda delle differenti epoche. A partire dalla
metà degli anni ’50, hanno distrutto moltissimi templi e monasteri, hanno
eliminato le persone istruite, laiche o religiose, a volte imprigionandole, a
volte mandandole nei "campi di lavoro", e anche con esecuzioni
pubbliche. Poi vi è stata la "rivoluzione culturale", e penso che
tutti abbiano sentito parlare di quell’epoca. Infatti c’era la propaganda
secondo la quale la civiltà tibetana era oscura e irrimediabilmente arretrata.
Dicevano che essa era crudele e senza valore; tutto ciò che era tibetano era
completamente inutile e privo di interesse. Questi sono i vecchi metodi.
Secondo i metodi attuali, a partire dalla metà degli anni ’80, la posizione
ufficiale è che la cultura tibetana è una cultura antica, degna d’interesse,
che bisogna preservare. I cinesi hanno messo nelle strade qualche cartello in
tibetano, e hanno anche dato l’ordine che i cinesi che vivono in Tibet
imparino il tibetano. Ma a parte questo, gli studi considerati importanti sono
quelli del cinese, e al momento degli esami finali, per esempio, è soprattutto
la cultura cinese che conta. Il tradizionale corso di studi tibetano è molto
lungo, ci vogliono venti o trent’anni per finirlo. Ora non ci sono
praticamente più posti in cui si possa seguire il "cursus" tibetano
dall’inizio alla fine. Forse in qualche piccola provincia molto lontana è
ancora possibile farlo, ma senza il permesso delle autorità cinesi. Il
risultato è che adesso in Tibet il livello del nostro insegnamento tradizionale
è molto basso. Per questa stessa ragione, migliaia di giovani non hanno altra
scelta che andare a studiare in India, nelle istituzioni monastiche che abbiamo
ricostituito in esilio. Dunque, malgrado tutta la propaganda, la realtà è che
c’è in atto un tentativo deliberato di eliminare la cultura tibetana.
Inoltre, deliberato o no, è soprattutto a causa dell’invasione dei coloni
cinesi che in questo momento in Tibet sta avendo luogo un "genocidio
culturale". Rifiuto però categoricamente l’uso della violenza. Da
qualche anno, mi è stato domandato a più riprese cosa farei se la disperazione
di alcuni tibetani li spingesse alla violenza, e ho sempre risposto che in quel
caso abbandonerei, mi ritirerei. Vi sono ragioni precise che mi inducono a
pensare così, non si tratta di pura ostinazione. Innanzitutto, perché credo
che la natura fondamentale dell’essere umano sia dolcezza e compassione. È
quindi nei nostri interessi incoraggiare tale natura, farla vivere in noi,
lasciarle lo spazio per svilupparsi. In compenso, utilizzando la violenza, è
come se frenassimo volontariamente il lato positivo della natura umana, e
impedissimo il suo schiudersi. La "Prima guerra mondiale" è terminata
con la sconfitta della Germania, e tale sconfitta ha profondamente traumatizzato
il popolo tedesco. È così che è stato piantato il seme della "Seconda
guerra mondiale". Una volta che la violenza si impadronisce di una
situazione, le emozioni diventano incontrollabili. È molto pericoloso, perché
in questo modo si arriva alla tragedia. È esattamente quello che sta succedendo
in Bosnia in questo momento. I metodi violenti non fanno che generare nuovi
problemi.
Nel nostro caso, il fatto più importante è che noi tibetani, e i nostri
fratelli e sorelle cinesi siamo sempre stati vicini, e dovremo restarlo. La sola
alternativa per l’avvenire sarebbe imparare a vivere in armonia, da buoni
vicini. È tra tibetani e cinesi che dobbiamo cercare una soluzione che apporti
un reciproco beneficio. Grazie al nostro atteggiamento "non-violento",
i cinesi all’interno e all’esterno della Cina
hanno già espresso simpatia e preoccupazione per la nostra causa; alcuni di
loro hanno anche detto di apprezzare molto la "non-violenza".
L’occupazione cinese dura da quarant’anni, e i tibetani, malgrado le
avversità, tentano di preservare la loro cultura, alla quale sono profondamente
legati. Nonostante tutti i danni che sono stati fatti, e tutte le distruzioni
perpetrate, non è troppo tardi. Rimane la speranza, non solo di preservare la
nostra cultura, ma anche di farla rinascere. C’è però un grande pericolo che
la minaccia: parlo del trasferimento massiccio di popolazione cinese. I tibetani
sono attualmente diventati minoritari nel loro stesso Paese. In tutte le più
grandi città del Tibet – Lhasa, Chamdo, Shigatse, Gyantse – la popolazione
è per i due terzi cinese, e solamente per un terzo tibetana.
Certo, nelle regioni di campagna più isolate si trovano ancora luoghi
interamente abitati da tibetani, ma non appena le terre sono fertili, o situate
a minor altitudine, laddove le condizioni di vita sono più clementi, i cinesi
si insediano numerosi.