Nell'indifferenza del mondo occidentale
Una nuova "apartheid"Gerolamo
Fazzini
("Avvenire", 25/10/’06)
C'è chi teme che l'avvicinarsi della festività musulmana di fine Ramadan porti a nuove violenze. Aveva colto nel segno l'agenzia "AsiaNews", una settimana fa, nel prevedere nuovi disordini, proprio in questo periodo, a Poso, nelle Sulawesi centrali. La località indonesiana - lo si ricorderà - è salita alla ribalta della cronaca per la vicenda di Fabianus Tibo, Marinus Riwu e Dominggus da Silva, i tre cattolici giustiziati lo scorso 22 settembre perché ritenuti principali responsabili di violenze contro la comunità musulmana durante i violenti scontri interreligiosi nel 2000. Ebbene: i timori della vigilia si sono rivelati fondati. A Poso, nello scorso fine settimana, si sono verificati scontri tra musulmani e polizia, che hanno provocato un morto ed alcuni feriti. Ieri, poi, un incendio doloso ha colpito una chiesa protestante fortunatamente senza provocare feriti, né gravi danni all'edificio. I due fatti, di per sé, non sono fra loro legati. Ma entrambi rivelano che il clima da quelle parti continua ad essere caldo. E, una volta di più, conferma che la vita per i cristiani (di tutte le confessioni) a certe latitudini è particolarmente dura. Nello stesso giro di ore, un'altra notizia arriva dall'Indonesia: sono stati liberati due militanti islamici, in carcere per l'attentato di Bali del 2002, che provocò la morte di oltre 200 persone; ad altri nove è stata ridotta la pena. Si dirà: non è la prima volta che il governo indonesiano adotta provvedimenti del genere per celebrare la fine del Ramadan. L'amnistia - è vero - ha coinvolto più di 43mila condannati. E ancora: ai due militanti scarcerati (condannati a cinque anni), la pena è stata ridotta di appena 45 giorni. Tutto vero. Ma ai cristiani locali l'accaduto non potrà che suonare come un'amara beffa: la conferma di una discriminazione nemmeno tanto sottile, qualcosa che somiglia a una sorta di "apartheid" vigente - al di là delle dichiarazioni di facciata del governo indonesiano, da molti considerato "moderato" - perlomeno in alcune zone dell'immenso arcipelago. Del resto, per rendersi conto di quanto il clima a Poso sia ancora incandescente basta riepilogare quanto successo tra il 29 settembre e il 1 ottobre scorsi, all'indomani della fucilazione dei tre cattolici. Le cronache parlano di aggressioni a civili e riferiscono del lancio di ordigni: tra gli obiettivi una chiesa protestante in costruzione e un complesso scolastico. In quell'occasione i negozi abbassarono le saracinesche per paura e gli abitanti si sottoposero a una sorta di volontario coprifuoco. La domanda è: fino a quando? Non sono bastati gli oltre duemila morti che tre anni di scontri hanno lasciato sul terreno, prima dell'entrata in vigore di un accordo di pace siglato a fine 2001? Se, come pensano analisti politici, il conflitto di Poso è lontano dal dirsi davvero concluso; se è vero che - come sostiene il governatore provinciale - «mani sporche stanno ancora giocando le loro carte», è tempo che il governo indonesiano rompa gli indugi e intervenga per spegnere definitivamente quel fuoco che ancora continua ad ardere sotto la brace. E sarebbe bene che la comunità internazionale non assistesse muta alla spirale di violenza che avvolge Poso. Non c'è nulla di peggio, per chi è vittima di discriminazioni e soprusi, sentirsi "meno uomo" di altri. Quasi sempre la scintilla della violenza scatta proprio lì.