Il premio "Nobel" e le nuove crisi del Continente

RITAGLI    Maathai: "Mea culpa" sull’Africa    MISSIONE AMICIZIA

Il recente caso del Kenya conferma la difficoltà storica
di far prevalere il senso della nazione rispetto alle etnie.
Unica eccezione, la Tanzania di Nyerere, "campione" del cristianesimo sociale.

Bimba del Kenya: amare lacrime di fatica e paura...

Wangari Maathai
("Avvenire", 17/2/’08)

La situazione attuale in Kenya è infelice, triste e scoraggiante dal momento che i keniani hanno lavorato molto per rendere il Paese più sicuro, prospero, democratico e pacifico. Il 27 dicembre 2007 si sono tenute le elezioni, duramente contestate e poi conclusesi. Dopo ciò, la "Commissione elettorale" ha pubblicato un controverso annuncio per il quale il presidente Kibaki risultava il vincitore. Sfortunatamente tutto questo avveniva prima della registrazione di tutti i voti e della consegna delle necessarie inchieste. Appena dopo questa dichiarazione, il presidente ha prestato giuramento in quella che è sembrata una cerimonia preparata in gran fretta in Parlamento. Questo fatto ha segnato l’inizio dei disordini. Quasi subito ci sono state dimostrazioni di strada, saccheggi e distruzioni di proprietà in diverse parti del Paese. Ancora una volta si è assistito al risorgere di scontri "interetnici", dove membri di varie "comunità" (tribù) hanno attaccato membri di altre comunità con archi, frecce e machete. Gli assalitori hanno ucciso, ferito, derubato, stuprato, incendiato case. Come è potuto accadere questo, proprio qui? Gli scontri tribali in Kenya e altrove nell’"Africa nera" sono indicativi. Rivelano la natura superficiale degli "Stati nazionali africani", non ancora abbastanza "coesi" per dare un senso di sicurezza e fiducia a tutti i cittadini. Come tutti noi sappiamo, gli Stati africani moderni sono essenzialmente un libero "collage" di patrie tribali, che definisco "micro-nazionalità". Il Kenya vanta 42 di queste micro-nazionalità.
La più numerosa ha una popolazione di vari milioni di persone, mentre la più piccola un numero inferiore a qualche migliaio.
L’acquisizione di potere politico è determinata in base a questi numeri.

Molti Stati nazionali africani sono stati frettolosamente creati dai poteri coloniali europei al momento del loro ritiro di fronte all’indipendenza, "coagulando" insieme un gruppo di queste micro-nazionalità e in alcuni casi frazionandole in più gruppi. Allo Stato nazionale venne dato un nome, una bandiera e un inno nazionale e, anche qui abbastanza in fretta, consegnato a un selezionato gruppo di "élites" educate all’occidentale, la maggior parte delle quali favorevoli all’amministrazione coloniale. Tra le popolazioni africane, i più non compresero i nuovi Stati nazionali e rimasero in larga parte leali e devoti alle micro-nazionalità. Questo è avvenuto in maniera particolare perché le "élites" dirigenti divennero distanti e separate, parlavano una lingua straniera, adottavano una cultura straniera, "frustrando" e "frantumando" le speranze nate dalla situazione di indipendenza. Con l’eccezione, forse, della Tanzania, dove il presidente Julius Nyerere in maniera deliberata e cosciente ha lavorato per uno Stato nazionale più coeso, in molti Paesi africani la lealtà alle micro-nazionalità è più grande di quella verso lo Stato nazionale. Le classi dirigenti sanno che per acquisire potere hanno bisogno del supporto delle micro-nazionalità e per questo devono dimostrarsi ad esse fedeli.
Allo stesso modo devono esprimere attaccamento allo Stato nazionale. Quindi sono le "élites" quelle che sembrano capire e aver bisogno dello Stato nazionale, mentre la maggioranza dei cittadini sono più legati alle micro-nazionalità. Spesso gli scontri nazionali sono usati per proteggere gli interessi delle micro-nazionalità o dei loro "leader" a spese dello Stato nazionale. Per creare uno Stato nazionale più coeso le "élites" al potere devono dedicare tempo, energie e risorse a creare questo tipo di Stato che dovrebbe assicurare libertà per tutti, sicurezza e un’equa distribuzione delle risorse almeno alla maggioranza dei cittadini. Questo, perché gli scontri tribali sono anche alimentati dalla povertà, dalla corruzione e da una chiara percezione che le risorse naturali non vengono distribuite in maniera uguale a tutte le micro-nazionalità. Anche qui con la sola eccezione di Nyerere, le classi dirigenti africane hanno usato il potere politico per accumulare benessere per se stesse a spese dei cittadini. Questo ha fatto sentire molti abitanti (e in modo particolare i giovani) esclusi, insicuri e irrequieti. Ma c’è speranza. Anche in questa ora che è la più buia, il Kenya può essere incoraggiato dalla strada percorsa nel cercare di diventare uno Stato nazionale. Abbiamo preso la via sbagliata? Forse, ma errare è umano. Il fatto che i keniani abbiano votato in massa il 27 dicembre scorso è positivo. I keniani, e tutti gli africani, devono assumere e apprezzare le loro micro-nazionalità perché hanno bisogno di cultura, lingua, valori e proposte. Ma dovrebbero lavorare in maniera cosciente e deliberata per rafforzare lo Stato nazionale portando a livello politico il meglio delle loro micro-nazionalità e arricchire così il patrimonio nazionale.

( Traduzione di Lorenzo Fazzini )