Trentamila abbandonano i villaggi devastati del Nord Kivu.
Congo:I più
fortunati trovano rifugio nei centri abitati.
C’è chi improvvisa campi profughi costruendo capanne di paglia.
Ma per molti non resta che la foresta.
L’impotenza degli organismi internazionali.
Un responsabile dell’Onu:
«Non sappiamo nemmeno più a chi e dove portare assistenza».
Da
Goma, Edoardo Tagliani
("Avvenire",
27/11/’07)
Riecheggiano sempre più forti i tamburi di guerra nel Nord Kivu. La tensione cresce di giorno in giorno per la presenza di diversi gruppi armati, e le agenzie umanitarie sono preoccupate per la sorte dei civili. Sono ben 370mila gli sfollati che dipendono dagli aiuti in questa regione orientale del Congo. Almeno in 30mila hanno abbandonato i propri villaggi negli ultimi giorni. Mercoledì scorso i miliziani ribelli dell’ex generale Laurent Nkunda hanno attaccato una postazione delle truppe regolari a Rutshuru, 50 chilometri dalla capitale provinciale Goma. Soltanto dopo diverse ore di combattimento, con la missione "Onu" "Monuc" ormai pronta a intervenire, l’esercito è riuscito a respingere l’assalto. La popolazione della zona, pur rischiando di trovarsi in mezzo al fuoco incrociato, non ha avuto altra scelta che darsi, nuovamente, alla fuga. Quella che segue è la testimonianza di un operatore umanitario di "Avsi", "ong" italiana che dal 2002 si occupa di progetti di emergenza nell’Est della Repubblica democratica del Congo. (P. M. A.)
È l’alba quando le
truppe dei ribelli muovono su Rutshuru. «Siamo asserragliate nel convento.
Sparano dappertutto». La voce di Antoniette si ode appena. Le detonazioni
intorno, invece, si sentono chiare. Le suore del convento cittadino, come gran
parte della popolazione, sono state colte di sorpresa e non hanno avuto modo di
fuggire. Chi abita nelle periferie, invece, ha sentito i mortai e ha lasciato
tutto, correndo verso il vicino villaggio di Kiwanja. «Siamo per strada.
Scappiamo. Rutshuru è già in mano ai ribelli», ansima correndo Cyprien
Kamarande, 46 anni, agronomo. Proprio a Rutshuru, dove vive e lavora, anni fa ha
perso una moglie e due figlie, trucidate in quello che ancora oggi tutti
ricordano come il massacro del mercato grande. I più fortunati, quando fuggono,
trovano rifugio in qualche centro abitato. C’è invece chi improvvisa campi
profughi costruendo capanne di paglia. E c’è chi, tagliato fuori dalle linee
del fronte, non ha altra via che quella della foresta. Intere famiglie vengono
sterminate senza sparare un colpo: ad ucciderle ci pensano gli stenti e le
malattie di una vita all’"addiaccio".
Nel pomeriggio la situazione si calma. Non è chiaro se le forze governative
abbiano la meglio o se siano i ribelli ad abbandonare le loro posizioni dopo
aver dato l’ennesima prova di forza. Ladislas Ruzizi è un uomo vecchio. Ha
più di 50 anni. È rispettato da tutti, a Rutshuru. Lavora con noi come
assistente sociale per il sostegno a distanza. Guarda la mappa del Nord Kivu,
Ladislas: «Ma come hanno fatto, i ribelli, ad entrare così velocemente in
città? Ci sono i "caschi blu", ci sono i militari del governo. Come hanno fatto?
Se cade Rutshuru non c’è più speranza». Ma Rutshuru non cade. Non oggi,
almeno. Alla sera, le famiglie fuggite al mattino tornano a casa. La propaganda
dà fiato alle trombe: le milizie nemiche sono sconfitte. Forse non è vero.
Forse non è così. Ma la notizia basta a infondere fiducia. Le strade di
Rutshuru tornano a vivere. Un’altra alba, un’altra notizia: i ribelli sono
segnalati di nuovo a pochi chilometri dal villaggio. La gente si rimette in
marcia verso Kiwanja ancor prima di udire gli spari. Hanno paura. È l’istinto
triste di chi, da 13 anni, vive fuggendo.
In questi mesi abbiamo perso i contatti con molte delle famiglie che aiutiamo,
che in totale sono 870. Abbiamo trovato quelli che si sono diretti verso i
centri urbani, come Goma. Altri, però, sono fuggiti in zone inaccessibili. Non
è la prima volta che assistiamo a movimenti massicci di popolazione, ma questa
crisi è diversa dalle precedenti. Tensioni etniche che credevamo sepolte sono
riaffiorate con la velocità d’un lampo. Negli ultimi quattro anni le famiglie
in fuga erano solite dirigersi verso i villaggi "sicuri",
indipendentemente dalle etnie dominanti che li abitavano. Dallo scorso agosto,
invece, molte persone si spostano anche in ragione della loro appartenenza
tribale, rifiutando di avventurarsi in zone dove vivono popolazioni differenti.
Tre mesi di conflitto ben orchestrato hanno distrutto anni di paziente lavoro di
sensibilizzazione per la pacifica convivenza tra le etnie. Sul campo di
battaglia di questa ennesima guerra del Nord Kivu, resteranno anche le spoglie
di un delicato processo di integrazione etnica che sembrava andare nella giusta
direzione.
La risposta del mondo umanitario è insufficiente: nonostante la grande
quantità di denaro disponibile, la crisi ha confini troppo estesi e
"volatili".
Ha il volto di un enorme "Golia". «Abbiamo il denaro ma non abbiamo uomini: non
riusciamo ad arrivare ovunque – ammette un responsabile dell’"Onu"
– . Inoltre spesso quando programmiamo una distribuzione di viveri in un
villaggio accade qualcosa che costringe di nuovo la gente a fuggire. Non
sappiamo nemmeno più a chi e dove portare assistenza».
In una riunione di coordinamento delle agenzie "Onu", un congolese
addetto alla logistica, nativo di Goma, alza la mano, sorride mesto e dichiara:
«Il numero di profughi sta superando quello di molte altre emergenze
umanitarie. Credete che ci daranno un premio?». Richiude l’agenda, si alza e
ciondola verso un magazzino zeppo di viveri che, forse, domani riuscirà a
distribuire.
(
Testo raccolto da Paolo M. Alfieri )