( Riflessioni libere di SANDRA CERVONE )
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Il Compianto di Niccolò dell'Arca a Bologna...
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Niccolò
Dell’Arca, "Compianto sul Cristo morto", particolare,
Bologna, Chiesa di S. Maria della Vita.
Il "Compianto" di Niccolò dell'Arca si distacca dai modi più misurati degli altri plasticatori emiliani, per assumere una cifra stilistica nella quale il lamento funebre si traduce in maschere di sofferenza, in urla ed in gesti di grande drammaticità. Si palesa in tal senso la vicinanza dell'opera ai risultati più alti della pittura ferrarese del suo tempo.
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Eravamo appena entrati nel santuario di Santa Maria della Vita, a Bologna, ed avevo subito notato, di lato all’altare maggiore, nella penombra, alcune statue quasi a grandezza naturale, senza darci in verità grossa importanza. "Il presepe" pensavo ed, in effetti, il 30 dicembre è facile e scontato trovare un presepe nelle chiese d’Italia…
Qualcuno, poi, mise i 50 centesimi nell’apposito contenitore e s’accese la luce ad illuminare quelle statue in terracotta. Fui come rapita da quella visione…
Con Nadia e Stefano ci avvicinammo in silenzio da quella parte e… mio Dio! Non dimenticherò mai quello che apparve ai miei occhi, la rappresentazione più cruda e realistica del dolore umano, la personificazione della disperata subordinazione alla morte e ai suoi misteri: le terrecotte di Niccolò dell’Arca, stupendo esempio d’arte rinascimentale noto col titolo de "Il Compianto".
A labbra spalancate, le vesti incollate al corpo, le lacrime pietrificate, le reazioni più incontrollate al grande dolore, quelle statue s’impressero nella mia mente in modo straordinario ed inaspettato, rovesciandomi addosso tutta la loro disperazione che mi scivolò direttamente nel cuore senza ch’io potessi avere il tempo per attivare o affinare le mie difese…
Fui rapita nel vento che le avvolge, nei movimenti nervosi che le caratterizzano, nello sconforto che le rende così uniche e drammaticamente attuali, fuori da schemi teologici rigidi o dettami scientifici….
La Maddalena, la Madonna, le Marie, San Giovanni Evangelista, Giuseppe d’Arimatea: tutti intorno al corpo del Cristo morto appena schiodato dalla croce e in procinto di essere sepolto.
C’è tutta la forza dirompente del racconto evangelico della Passione in quei volti e quelle mani, mescolato alle reazioni tipiche che comuni mortali d’ogni tempo e d’ogni parte del Pianeta hanno dinanzi al cadavere di un parente o un caro amico…
Contrazione, esternazione, lamenti, disappunto…
Si dimentica per un istante il "divino", la certezza cristiana della Resurrezione, la gioia della domenica di Pasqua per immergersi totalmente nell’atmosfera dolorosa e sgomenta del Venerdì Santo, quando cielo e terra si oscurarono al grido del Cristo che concludeva la sua esperienza terrena fra i patimenti indicibili del supplizio più crudele e riservato ai malfattori…
La terra tremò, ci dicono i vangeli, e sembra ancora tremare sotto i piedi di Maria di Cleofa che con le mani tenta istintivamente di allontanare più possibile il male e la sofferenza. Non vuole guardare, non vuole accettare, non può che urlare…
Un vento esagerato spinge Maria Maddalena verso la salma del suo Signore, verso una verità che mai avrebbe voluto conoscere o appurare…
Impietrito San Giovanni, il discepolo amato da Gesù, cerca di non cedere alla volontà di disperarsi liberamente come quelle donne del popolo che strepitano e s’agitano in modo esagerato e perfino pagano…
Sembrano streghe, adepte di chissà quale setta, addirittura indemoniate…
Giovanni ripensa alle promesse e si impone una speranza che alla vista di quel cadavere sembra quasi un’utopia…
Un corpo straziato, trafitto, piagato… potrà mai risorgere davvero?
La fede che non ha vacillato sotto la croce, quando Gesù gli ha affidato sua Madre, sembra tentennare adesso perché è proprio il dolore acerbo di quella Madre che affligge Giovanni più di quanto egli stesso avrebbe potuto immaginare.
Giovanni si tiene la testa con una mano, quasi ad imporle di restare alzata, alla ricerca isterica di un equilibrio che gli servirà per non soccombere al dolore e per andare avanti. Come consolerà quella Madre e quei lamenti strazianti?
Maria, la Madre, è quasi uno scheletro: livida e piangente. Il suo viso ha assunto le sembianze della morte, prigioniera del suo manto che sembra comprimerla e soffocarla…
Urla e si contorce, le rughe sul viso che non è più quello michelangiolesco della Pietà…
La lingua riarsa, le labbra screpolate: non ha più saliva, né lacrime, né sangue nelle vene…
Non si agita però come le tre Marie, non rinuncia a guardare quel Figlio, il frutto di quel seno rimasto puro ed ora devastato dal dolore…
Non ha bisogno di colpirsi come fa invece Maria di Salome (che ha stretto le ginocchia con le mani e le stringe in una morsa per placare dolore con dolore), né di liberare la sua corporeità come la Maddalena della quale intravediamo le nudità sotto le vesti incollate: la Madonna congiunge le mani in una preghiera disperata, incapace di invocare rassegnazione e umanamente dimentica di quella fiducia totale che l’aveva finora sostenuta…
Giuseppe d’Arimatea? Si rivolge a chi guarda con la severità di chi, di fronte ad una tragedia o ad un atto scellerato domanda: "E ora? Era questo che volevate? Guardate dove vi ha portato la vostra iniquità!"…
La sua mano stretta alla cintura rivela però l’intensità della sua sofferenza, lo sforzo di restare al posto che gli compete e di non cedere al delirio collettivo cui assiste.
Quante volte avevo letto e meditato sulle pagine della Passione, quante volte avevo assistito alle sacre rappresentazioni o alle via crucis dei venerdì di quaresima… ma mai lo stato d’animo era stato così condizionato, così scosso, così catturato come dalla contemplazione di quelle statue di Niccolò d’Apulia…
E non per un discorso solamente di fede, anzi! Le sensazioni provate hanno coinvolto mente e cuore, cultura e sensibilità…
Di donna, di intellettuale, di cristiana, di filantropa…
Tutta la mia persona, tutta la realtà che sono e da cui provengo, tutti i sogni e le speranze in quegli interrogativi scaturiti mentre, seduta di fronte a quelle statue nel silenzio, "bevevo" la loro struggente originalità e mi nutrivo della loro disarmante crudezza…
Personaggi spuntati fuori dal mondo misterioso dell’occulto, della stregoneria, della negazione d’ogni anelito divino?
No, non è questo…c’è di più!
Sono davvero l’emblema dell’umanità, della complessa mescolanza di potenzialità sublimi e concretezze terrene che siamo, impastati di fango e alito divino! La morte mette fine ad una delle nostre caratteristiche, chiudendo il sipario sulla meravigliosa esperienza che è il vivere nel mondo e distaccandoci materialmente dagli affetti e dalle seduzioni terrene. La morte delle persone che amiamo è ugualmente lacerante e umanamente inaccettabile. La rassegnazione, la fede, il risveglio spirituale, la voglia di ricominciare non sono che passi successivi, non impossibili ma comunque da raggiungere con sforzo e impegno personale.
Nessuno nega che ciò accade e può accadere, ma resta ugualmente terribile il momento del distacco, l’attimo in cui dobbiamo chiudere gli occhi alla persona amata o vedere il coperchio di una bara separarci definitivamente dalla vista di chi abbiamo amato e da cui siamo stati amati…
Ecco la grandezza di Niccolò dell’Arca: essere riuscito a raccontarci quel momento, ad imprimerlo nelle sue creature straziate e strazianti, a fotografarlo nelle lingue retratte, nelle guance solcate, nelle palpebre cadenti, nelle rughe, nelle mani, nelle pupille…
Non dobbiamo aver paura d’essere "umani" se questo vuol dire essere fragili, cagionevoli, sensibili… Non dobbiamo aver paura di esternare sentimenti di sconfitta, di terrore, di attaccamento, di desolazione…
Anche le lacrime sono un dono divino, anche il dolore, anche il rifiuto della sofferenza e della morte…
Il Cristo morto non rappresenta forse tutte le vittime di ingiuste condanne, di guerre assurde, di innominabili stermini, di egoismi di regimi, di scelte imbecilli, di deliri collettivi, di presunzioni, di aberrazioni, di cecità e irresponsabilità…?!
Come non strapparsi i capelli di fronte a queste sconfitte?
Le urla delle statue di Bologna raggiungano ogni angolo della terra perchè ogni cuore provochi ribrezzo per l’umanità disumanizzata, quella che condanna la disperazione e poi l’infligge senza pietà e senza timore di Dio… di qualunque Dio…
Il "nostro" Dio, quello che non ha esitato ad incarnarsi per salvarci, non ha esitato neppure a morire da uomo perché lo piangessimo da uomini prima di adorarlo da risorti…
E piangono e si dimenano le statue di Bologna, lasciano che la sofferenza martorizzi corpo e spirito, nell’intento di raccontare il mistero della morte che non spaventa in quanto morte ma in quanto conclusione di una violenza perpetrata all’uomo dai suoi simili…
Basta guardare il corpo composto del Cristo con i suoi atroci segni del martirio: la carne trafitta e lacerata, la corona di spine…
E quegli occhi semichiusi, la bocca ancora aperta per implorare dal Padre il perdono per i suoi aguzzini.