RACCONTI    LA PARTITA    DIARIO

"Hai mai provato a fare un tiro? Giocare dà gioia!"...

( SANDRA CERVONE )

Camminava seguendo i suoi pensieri. Suo padre se n'era andato da casa che lui aveva solo sei anni. E Ivan, allora, nonostante i suoi trent'anni compiuti, si sentiva ancora un ragazzino e non capiva proprio cosa volessero dire tutti quei: "Ma ormai sei cresciuto!". Adorava i bambini piccoli, quelli che sentiva più simili a lui. Voleva solo guardarli, parlare con loro. Ridere, scherzare. Sentirsi ancora così tenero e tranquillo da non provare mai più il dolore provato. I bambini non sanno fronteggiare le sorprese. Si lasciano andare agli sguardi, ricambiano i sorrisi. Rispondono ai pensieri inespressi.

Ivan, perciò, usciva tutti i pomeriggi per andare a cercare i bambini. Prendeva un autobus e raggiungeva lo stadio. A quell'ora tanti piccoli atleti si allenavano tra sudore e allegria. Ridevano, litigavano, gioivano per un canestro, battevano le mani, tiravano il pallone con impeto e passione.

Ivan seguiva quel gioco guardando oltre la rete. E si rivedeva. Piccolo ma già grande per capire. Piccolo e implorante le carezze dal padre che scappava. Proprio la sera prima della sua prima partita! Lacrime. Fiumi di lacrime. E la mamma che non voleva spiegare.

Poi, tutte le volte, qualcuno interrompeva i suoi ricordi. "Ehi, giovanotto, che ci fai da queste parti? Ti avevo detto di non tornare più... allontanati o chiamo la polizia".

E Ivan si risvegliava alle parole acide del custode del palazzetto, iniziava a correre forte per non sentire quel ritornello. Poi, il pomeriggio seguente, tornava nei pressi della struttura sportiva e riprovava a sognare.

Un giorno, finalmente, riuscì a varcare una porta sempre chiusa e raggiunse i bambini fino alla palestra interna.

"Che belli!", pensava. Che dolci! E batteva le mani per richiamare i loro sorrisi.

"La facciamo una partita? La facciamo?".

"C'e il matto! C'è il matto!". Ridacchiavano i bambini.

"Quale matto? Quale matto?". Intervennero gli allenatori.

"Sono io! Sono il matto!". Si mise ad urlare facendo piroette per divertire i bambini.

Ma gli adulti, si sa, non riescono mai a ridere troppo coi matti e allora Ivan si ritrovò per strada scaraventato nel silenzio della follia riconosciuta.

Corse a lungo, graffiandosi il viso, imprecando a gran voce contro il mondo e la sfortuna...

Sudato e imbrattato arrivò nel paese vicino. Entrò in un bar ed urlò la sua pena. Lo cacciarono anche di lì e si mise a dare calci alle vetrate.

Poi la vide. Piccola, indifesa, che giocava in silenzio con le foglie delle aiuole. Si avvicinò, le parlò, divenne tenero come non era mai stato. "Che ci fai tutta sola per strada?". "Sono con la mamma", rispose la bambina. E indicò un tavolino del bar dove una coppia di giovani donne prendeva un caffè con un uomo ed un ragazzino. "Perchè ti hanno lasciata sola?" - chiese Ivan seriamente preoccupato - . "Lo sanno che è pericoloso lasciare i bambini da soli per strada?".

Fu a quel punto che allungò un braccio per farle una carezza, ma lo zio della piccola fece in tempo a bloccarlo aggredendolo con le parole. "Ma che vuoi? Ma chi ti ha detto di spaventare la bambina? Non ti permettere nemmeno di sfiorarla... capito?".

Ivan farfugliò una risposta, poi cercò una scusa, poi rimproverò a sua volta quell'uomo, avvertendolo dei pericoli che una bambina sola può correre per strada....

Poi sorrise e chiese: "Giochiamo a pallone?".

E quando il pugno gli arrivò dritto sul naso, indietreggiò spaventato e confuso, e si lasciò cadere sul manto stradale, come un birillo di legno colpito e abbattuto.

"Canestro!", riuscì ad urlare mentre una, due, tre macchine correvano all'impazzata...

Ivan sentiva soltanto il dolore. Ed il cielo, lontanissimo, diventava nero come non lo era mai stato.

"Papà..." - ripeteva - "non sono stato cattivo, perchè vuoi andare via? Perchè mi lasci solo?".

E quel fiotto di sangue sull'asfalto urlò più forte di una sirena impazzita.

Ivan tornava davvero bambino e gli allenatori di basket non lo scacciavano più... facendolo giocare nella palestra più grande del mondo, con tanti amici che ridevano e gioivano mentre un pallone entrava nel canestro tra gli applausi e le ovazioni.

"Papà: guardami... guardami ora!".

E del suo cuore non rimase che una coccarda appuntata proprio lì, in bilico tra la morte e la non-vita. 

Per la "sua" partita, finalmente! L'ultima.