LETTERA ENCICLICA
CARITAS IN VERITATE
DEL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XVI
AI VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE AI FEDELI
LAICI
E A TUTTI GLI UOMINI DI BUONA VOLONTÀ
SULLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE
NELLA CARITÀ E NELLA VERITÀ
CAPITOLO PRIMO | IL MESSAGGIO DELLA POPULORUM PROGRESSIO |
CAPITOLO SECONDO | LO SVILUPPO UMANO NEL NOSTRO TEMPO |
CAPITOLO TERZO |
FRATERNITÀ,
SVILUPPO ECONOMICO E SOCIETÀ CIVILE |
CAPITOLO QUARTO | SVILUPPO DEI POPOLI, DIRITTI E DOVERI, AMBIENTE |
CAPITOLO QUINTO | LA COLLABORAZIONE DELLA FAMIGLIA UMANA |
CAPITOLO SESTO |
LO
SVILUPPO DEI POPOLI E LA TECNICA |
.
CAPITOLO TERZO
FRATERNITÀ, SVILUPPO ECONOMICO E SOCIETÀ CIVILE
(Audio) 34.
La carità nella verità pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza
del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso
non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica
dell'esistenza. L'essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la
dimensione di trascendenza. Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di
essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa
una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende
— per dirla in termini di fede — dal peccato delle origini. La
sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale
anche nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società:
« Ignorare che l'uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi
errori nel campo dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei
costumi » [85].
All'elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato,
si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell'economia. Ne abbiamo una
prova evidente anche in questi periodi. La convinzione di essere autosufficiente
e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria
azione ha indotto l'uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme
immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della
esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare “influenze” di
carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo
persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi
economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e
dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di
assicurare la giustizia che promettevano. Come ho affermato nella mia Enciclica Spe
salvi, in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana [86],
che è invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano
integrale, cercato nella libertà e nella giustizia. La speranza incoraggia la
ragione e le dà la forza di orientare la volontà [87].
È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La carità nella verità
se ne nutre e, nello stesso tempo,
Perché
dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la
comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né
confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non
potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né
essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente
universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni
divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore. Nell'affrontare
questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del
dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento
e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha
bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di
gratuità come espressione di fraternità.
(Audio) 35.
Il mercato, se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è l'istituzione
economica che permette l'incontro tra le persone, in quanto operatori economici
che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e
servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato
è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che
regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la
dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza
l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale
per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un
contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in
cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza
di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di
cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e
di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria
funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la
perdita della fiducia è una perdita grave.
Opportunamente
Paolo VI
nella Populorum
progressio sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe
tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a
trarre beneficio dallo sviluppo dei Paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi [90].
Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l'assistenza. I
poveri non sono da considerarsi un « fardello » [91],
bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico. È tuttavia
da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l'economia di mercato abbia
strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter
funzionare al meglio. È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per
farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di
produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere
energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
(Audio)
La
Chiesa ritiene da sempre che l'agire economico non sia da considerare
antisociale. Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il
luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi
dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse ipso facto la
morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può
essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma
perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato
che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni
culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l'economia e la finanza,
in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo
riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé
buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell'uomo a produrre
queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo
strumento a dover essere chiamato in causa ma l'uomo, la sua coscienza morale e
la sua responsabilità personale e sociale.
La
dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti
autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di
reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di
essa o « dopo » di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né
di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e,
proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.
La
grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello
sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla
crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di
comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la
trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o
attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di
gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e
devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è
un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa
ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della
verità.
(Audio) 37.
La dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto che la giustizia
riguarda tutte le fasi dell'attività economica, perché questa ha sempre a
che fare con l'uomo e con le sue esigenze. Il reperimento delle risorse, i
finanziamenti, la produzione, il consumo e tutte le altre fasi del ciclo
economico hanno ineluttabilmente implicazioni morali. Così ogni decisione
economica ha una conseguenza di carattere morale. Tutto questo trova
conferma anche nelle scienze sociali e nelle tendenze dell'economia
contemporanea. Forse un tempo era pensabile affidare dapprima all'economia la
produzione di ricchezza per assegnare poi alla politica il compito di
distribuirla. Oggi tutto ciò risulta più difficile, dato che le attività
economiche non sono costrette entro limiti territoriali, mentre l'autorità dei
governi continua ad essere soprattutto locale. Per questo, i canoni della
giustizia devono essere rispettati sin dall'inizio, mentre si svolge il processo
economico, e non già dopo o lateralmente. Inoltre, occorre che nel mercato si
aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente
scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro
profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. Le tante
espressioni di economia che traggono origine da iniziative religiose e laicali
dimostrano che ciò è concretamente possibile.
Nell'epoca
della globalizzazione l'economia risente di modelli competitivi legati a culture
tra loro molto diverse. I comportamenti economico-imprenditoriali che ne
derivano trovano prevalentemente un punto d'incontro nel rispetto della
giustizia commutativa. La vita economica ha senz'altro bisogno del contratto,
per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì
bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate
dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono.
L'economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello
scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno
anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza
contropartita.
(Audio) 38.
Il mio predecessore Giovanni
Paolo II aveva segnalato questa problematica, quando nella Centesimus
annus aveva rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il
mercato, lo Stato e la società civile [92].
Egli aveva individuato nella società civile l'ambito più proprio di un'economia
della gratuità e della fraternità, ma non aveva inteso negarla agli altri
due ambiti. Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come
una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e con modalità
specifiche, deve essere presente l'aspetto della reciprocità fraterna.
Nell'epoca della globalizzazione, l'attività economica non può prescindere
dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità
per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori. Si tratta, in
definitiva, di una forma concreta e profonda di democrazia economica. La
solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti [93],
quindi non può essere delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere
che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse
dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce
a realizzare nemmeno
(Audio) 39.
Paolo VI
nella Populorum
progressio chiedeva di configurare un modello di economia di mercato
capace di includere, almeno tendenzialmente, tutti i popoli e non solamente
quelli adeguatamente attrezzati. Chiedeva che ci si impegnasse a promuovere
un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti avessero « qualcosa da
dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo
allo sviluppo degli altri » [94].
Egli in questo modo estendeva al piano universale le stesse richieste e
aspirazioni contenute nella Rerum
novarum, scritta quando per la prima volta, in conseguenza della
rivoluzione industriale, si affermò l'idea — sicuramente avanzata per quel
tempo — che l'ordine civile per reggersi aveva bisogno anche dell'intervento
ridistributivo dello Stato. Oggi questa visione, oltre a essere posta in crisi
dai processi di apertura dei mercati e delle società, mostra di essere
incompleta per soddisfare le esigenze di un'economia pienamente umana. Quanto la
dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto a partire dalla sua visione
dell'uomo e della società oggi è richiesto anche dalle dinamiche
caratteristiche della globalizzazione.
Quando
la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare
nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la
solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l'adesione,
l'agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al “dare per avere”, proprio
della logica dello scambio, e al “dare per dovere”, proprio della logica dei
comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato. La vittoria sul
sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni
fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali
di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto
mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e
di comunione. Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità,
mentre le forme economiche solidali, che trovano il loro terreno migliore nella
società civile senza ridursi ad essa, creano socialità. Il mercato della
gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti.
Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono
reciproco.
(Audio) 40.
Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi
distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di
intendere l'impresa. Vecchie modalità della vita imprenditoriale vengono
meno, ma altre promettenti si profilano all'orizzonte. Uno dei rischi maggiori
è senz'altro che l'impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe
e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese,
grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali,
fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine,
e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno
dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione
dell'attività produttiva può attenuare nell'imprenditore il senso di
responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i
fornitori, i consumatori, l'ambiente naturale e la più ampia società
circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio
specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità. Il mercato
internazionale dei capitali, infatti, offre oggi una grande libertà di azione.
È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità
di una più ampia “responsabilità sociale” dell'impresa. Anche se le
impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale
dell'impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina
sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il
convincimento in base al quale la gestione dell'impresa non può tenere conto
degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di
tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa:
i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità
di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe
cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli
azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono
di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con
analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la
loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera. Paolo
VI invitava a valutare seriamente il danno che il trasferimento all'estero
di capitali a esclusivo vantaggio personale può produrre alla propria Nazione [95].
Giovanni
Paolo II avvertiva che investire ha sempre un significato morale,
oltre che economico [96].
Tutto questo — va ribadito — è valido anche oggi, nonostante che il mercato
dei capitali sia stato fortemente liberalizzato e le moderne mentalità
tecnologiche possano indurre a pensare che investire sia solo un fatto tecnico e
non anche umano ed etico. Non c'è motivo per negare che un certo capitale possa
fare del bene, se investito all'estero piuttosto che in patria. Devono però
essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche conto di come quel
capitale si è formato e dei danni alle persone che comporterà il suo mancato
impiego nei luoghi in cui esso è stato generato [97].
Bisogna evitare che il motivo per l'impiego delle risorse finanziarie sia
speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine,
e non anche la sostenibilità dell'impresa a lungo termine, il suo puntuale
servizio all'economia reale e l'attenzione alla promozione, in modo adeguato ed
opportuno, di iniziative economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo. Non
c'è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta
investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del Paese che
(Audio) 41.
Nel contesto di questo discorso è utile osservare che l'imprenditorialità
ha e deve sempre più assumere un significato plurivalente. La perdurante
prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente
all'imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale
dall'altro. In realtà, l'imprenditorialità va intesa in modo articolato. Ciò
risulta da una serie di motivazioni metaeconomiche. L'imprenditorialità, prima
di avere un significato professionale, ne ha uno umano [98].
Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come « actus personae » [99],
per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il
proprio apporto in modo che egli stesso « sappia di lavorare “in proprio”
» [100].
Non a caso Paolo
VI insegnava che « ogni lavoratore è un creatore » [101].
Proprio per rispondere alle esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai bisogni
della società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra
« privato » e « pubblico ». Ognuna richiede ed esprime una capacità
imprenditoriale specifica. Al fine di realizzare un'economia che nel prossimo
futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale, è
opportuno tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità.
Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra
le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo
non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello
proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei
Paesi in via di sviluppo.
Anche
l'“autorità politica” ha un significato plurivalente, che non
può essere dimenticato, mentre si procede alla realizzazione di un nuovo ordine
economico-produttivo, socialmente responsabile e a misura d'uomo. Come si
intende coltivare un'imprenditorialità differenziata sul piano mondiale, così
si deve promuovere un'autorità politica distribuita e attivantesi su più
piani. L'economia integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli Stati,
piuttosto ne impegna i Governi ad una più forte collaborazione reciproca.
Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo
affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi
attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue
competenze. Ci sono poi delle Nazioni in cui la costruzione o ricostruzione
dello Stato continua ad essere un elemento chiave del loro sviluppo. L'aiuto
internazionale proprio all'interno di un progetto solidaristico mirato alla
soluzione degli attuali problemi economici dovrebbe piuttosto sostenere il
consolidamento di sistemi costituzionali, giuridici, amministrativi nei Paesi
che non godono ancora pienamente di questi beni. Accanto agli aiuti economici,
devono esserci quelli volti a rafforzare le garanzie proprie dello Stato di
diritto, un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel
rispetto dei diritti umani, istituzioni veramente democratiche. Non è
necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche: il
sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinché si rafforzino può benissimo
accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti politici, di natura culturale,
sociale, territoriale o religiosa, accanto allo Stato. L'articolazione
dell'autorità politica a livello locale, nazionale e internazionale è, tra
l'altro, una delle vie maestre per arrivare ad essere in grado di orientare la
globalizzazione economica. È anche il modo per evitare che essa mini di fatto i
fondamenti della democrazia.
(Audio) 42.
Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti
fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze
impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana [102].
È bene ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz'altro intesa
come un processo socio-economico, ma questa non è l'unica sua dimensione. Sotto
il processo più visibile c'è la realtà di un'umanità che diviene sempre più
interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo
deve essere di utilità e di sviluppo [103],
grazie all'assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività
delle rispettive responsabilità. Il superamento dei confini non è solo un
fatto materiale, ma anche culturale nelle sue cause e nei suoi effetti. Se si
legge deterministicamente la globalizzazione, si perdono i criteri per valutarla
ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere a monte vari orientamenti
culturali sui quali occorre esercitare il discernimento. La verità della
globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati
dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi
impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale
personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di
integrazione planetaria.
Nonostante
alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate,
« la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò
che le persone ne faranno » [104].
Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza,
guidati dalla carità e dalla verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un
atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo
contrassegnato anche da aspetti positivi, con il rischio di perdere una grande
occasione di inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da esso
offerte. I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti,
offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello
planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono
invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi
l'intero mondo. Bisogna correggerne le disfunzioni, anche gravi, che
introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la
ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una ridistribuzione della povertà
o addirittura con una sua accentuazione, come una cattiva gestione della
situazione attuale potrebbe farci temere. Per molto tempo si è pensato che i
popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e
dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati. Contro questa
mentalità ha preso posizione Paolo
VI nella Populorum
progressio. Oggi le forze materiali utilizzabili per far uscire quei
popoli dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo, ma di esse hanno
finito per avvalersi prevalentemente gli stessi popoli dei Paesi sviluppati, che
hanno potuto sfruttare meglio il processo di liberalizzazione dei movimenti di
capitali e del lavoro. La diffusione delle sfere di benessere a livello mondiale
non va, dunque, frenata con progetti egoistici, protezionistici o dettati da
interessi particolari. Infatti il coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di
sviluppo, permette oggi di meglio gestire