Dal Vangelo secondo Marco
Mancavano due
giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano
il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti:
«Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».
Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a
tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di
puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo
sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo
spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai
poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.
Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto
un'azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete
far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me» (....).
In questa settimana santa, il ritmo dell'anno liturgico rallenta: sono i giorni
del nostro destino e sembrano venirci incontro piano, ad uno ad uno, ognuno
generoso di segni, di simboli, di luce. La cosa più bella che possiamo fare è
sostare accanto alla santità delle lacrime, presso le infinite croci del mondo
dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. E deporre sull'altare di
questa liturgia qualcosa di nostro: condivisione, conforto, consolazione, una
lacrima. E
l'infinita passione per l'esistente.
«Salva te stesso, scendi dalla croce, allora crederemo». Qualsiasi uomo,
qualsiasi re, potendolo, scenderebbe dalla croce. Gesù, no.
Solo un Dio non scende dal legno, solo il nostro Dio. Perché il Dio di Gesù è
differente: è il Dio che entra nella tragedia umana, entra nella morte perché là
è risucchiato ogni suo figlio.
Sale sulla croce per essere con me e come me, perché io possa essere con lui e
come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all'uomo che è in
croce. Perché l'amore conosce molti doveri, ma il primo di questi è di essere
con l'amato, unito, stretto, incollato a lui, per poi trascinarlo fuori con sé
nel mattino di Pasqua.
Qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato in una falsa idea di Dio. Solo la
croce toglie ogni dubbio. La croce è l'abisso dove Dio diviene l'amante. Dove un
amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa.
L'ha capito per primo un estraneo, un soldato esperto di morte, un centurione
pagano che formula il primo credo cristiano: costui era figlio di Dio. Che cosa
ha visto in quella morte da restarne conquistato? Non ci sono miracoli, non si
intravvedono risurrezioni. L'uomo di guerra ha visto il capovolgimento del
mondo, di un mondo dove la vittoria è sempre stata del più forte, del più
armato, del più spietato. Ha visto il supremo potere di Dio, del suo disarmato
amore; che è quello di dare la vita anche a chi dà la morte; il potere di
servire non di asservire; di vincere la violenza, ma prendendola su di sé.
Ha visto sulla collina che questo mondo porta un altro mondo nel grembo, un
altro modo di essere uomini.
Come quell'uomo esperto di morte, anche noi, disorientati e affascinati,
sentiamo che nella Croce c'è attrazione, e seduzione e bellezza e vita. La
suprema bellezza della storia è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla
collina, dove il Figlio di Dio si lascia inchiodare, povero e nudo, per morire
d'amore. La nostra fede poggia sulla cosa più bella del mondo: un atto d'amore.
Bello è chi ama, bellissimo chi ama fino all'estremo. La mia fede poggia su di
un atto d'amore perfetto. E Pasqua mi assicura che un amore così non può andare
deluso.