ARCHIVIO PIME   ARCHIVIO PIME   IL NOSTRO PROGETTO DI VITA

P. FRANCESCO RUSSELLO

Insuccesso

Il mio primo viaggio fu per una unzione. Non è un avvenimento storico né di ieri né di pochi giorni fa, ma dell’anno 1935. Il fatto dunque a qualcuno potrebbe apparire ormai passato e trascurabile, ma io vi dico che non è così; per molte ragioni, mi limito solo a dire: la prima è che certi avvenimenti anche lontani da noi, ripensandoli, tornano più cari alla mente e al cuore: la seconda è che per voi è nuovo e dovrebbe piacervi. Fu nel 1935 e con ciò vi ho detto che il fatto accadde nei primi due mesi che mi trovavo in questa prolifica missione di cristiani, che dalla episcopale-quod condendum erit si chiama Bezwada. Esso fatto quando ancora mi trovavo a Goddivada e meta di viaggio fu la vicaria o distretto di Vennanpudi. Le circostanze mi sembrarono abbastanza abbondanti e chiare per ambientarvi… per ambientarvi perché l'ambiente, e voi lo sapete meglio di me - voi nati e cresciuti alla scuola… dell’arte - è di grande importanza nella vita dell’uomo, dicono gli psicologi.
Ero solo… P. Mariani era andato e vedere i lavori della graziosa chiesetta in uno dei più lontani villaggi del suo distretto. Seduto su una sedia a sdraio a modo indiano, avendo tra le mani un libro di esercizi inglesi, studiavo la lezione che l’indomani dovevo ripetere al mio maestro indiano che per amor del vero debbo dire fu sì e no regolare: in due mesi e mezzo tutto quanto il tempo nel qual mi specializzai inglese… venne tre o più giorni, ossia mi diede tre ore scarse di scuola. Un uomo sulla cinquantina con un bastone alto più di lui, l’arma indivisibile e solo permessa all’indiano, passa il cancello sempre aperto e s’avanza, regolando quasi il passo col battere del suo bastone di bambù: prima che dicesse l’usuale stramu-saluto comune e cordiale dei cristiani ai soli missionari, l’avevo fotografato coll’obiettivo del mio sguardo… Lo lascio parlare per vedere cosa capissi, già ché due parole le avevo apprese a viva voce o leggendo qualche parola di telegu. Capii tutto o quasi tanto che mandò a chiamare il catechista, questi che abita a due passi distante dal padre, viene e gli domando precisamente cosa quel cristiano. Dopo aver scambiato due parole, mi dice che c’è da andare a dare un’estrema unzione nel villaggio del confinante distretto di Vennanapudi. E’ già da ieri sera dice, che la poveretta chiama il Swami, ma gli uomini andati dal loro Swami, riferiscono che questi si è allontanato momentaneamente per andare a Bandar e rimettersi in salute. Allora di buon mattino costui è partito per venire dal Padre di Gudivada. "Allora tanto vale andare a piedi, e poi ci è impossibile stare alla pare" dico io "sarà meglio aspettare qualche oretta, o poco più che torna dalla scuola Battinada e così tutti e due in bicicletta arriveremo assai prima. Nel frattempo misi una valigetta gli oli santi e l’occorrente, legai ben bene dietro la bicicletta, non vedevo l’ora che venisse dalla scuola il nostro ragazzo per andare, e nello stesso tempo andavo pensando: "ecco il mio primo viaggio nel distretto… non importa che non so la lingua… tanto la formula dell’assoluzione e dell’estrema unzione è in latino. Il mio primo dico improvviso viaggio di distretto è per una estrema unzione. Se altri si dicono felici di potere accorrere per potere dare un battesimo, io non mi ritenni meno felice che fosse stato per una estrema unzione. Certo bello, sublime e divino e teologicamente più fruttuoso è il giungere in tempo ad amministrare un battesimo, ma voi non mi direte che non è bello, sublime patetica la figura del missionario al capezzale di un moribondo che lotta in un duplice agone: quello della vita materiale che tiene disperatamente stretta nel palpito affannoso del suo cuore, e quello della vita ultramondana che vuole raggiungere e teme di raggiungere. Se mai voi visitate il seminario nostro di Milano, in uno dei lunghi corridoi, un quadro porta stampato, nello sforzo dell’autore una simile scena. Soffermatevi un tantino a guardarlo, e ciò che ho provato io, lo proverete anche voi. "Canaglia" rivolto mezzo secco al mio cuoco che prese per un titolo onorifico, fa sì che costui si muove con più fretta a preparare qualcosa per pasto. Anche il missionario, come il soldato al fronte deve mettere in serbo nel serbatoio… qualcosa per trovarsi pronto agli improvvisi del caso. Io ero già pronto quando arriva Battinada, e deposti i libri, divorai in un batter d’occhio il piatto di riso, preparato fin dal mattino ed esce dalla capanna lavandosi col cembo la mano e la bocca: "Andiamo subito" dico io, e salto sulla mia bicicletta. Ma quegli dice: "E dove" "Su quella" non la di" rispondo "Ma c’è il lucchetto e il padre non vuole che la si tocchi ché gliela si più di quello che l’è. "Via non perdiamo tempo, rompi tutto". No avevo finito di dirglielo, che era saltato sulla bicicletta ed che l’era già, ci avviammo di corsa "Non corra padre, arriveremo certo molto prima di quell’uomo col quale, se fosse andato oltre a fare tardi, non sarebbe giunto al villaggio senza una qualche avventura, perché quegli l’avrebbe condotto per strade a noi indiani comode, ma per loro… e in bicicletta… La strada finora era discreta, e sebbene l’ora fosse piuttosto calda, era una delle stagioni più belle dell’India. Un vento leggero, favorevole assecondava magnificamente. La campagna ai due lati della strada era indimenticabile… di niente. La terra asciutta e spoglia, qua e là rari alberi infruttiferi; il panorama insomma per un poeta che sa creare è uno dei più suggestivi. "E’ lontano il villaggio?" gli dico in inglese. "Oh no padre, fra qualche ora o poco più potremo esserci. Se avessi una motocicletta! "Un aeroplano, ma la via chi me la insegna? E qui non ci sono affatto vie, è più facile l’atterraggio su un campo aperto di fortuna, come hanno fatto i nostri valorosi e impareggiabili avieri in Abissinia. Si arriva al villaggio, bivio "Da qui padre" Io so la strada, dove andiamo è il mio villaggio natio. Si cammina sulla strada famosa di Vennanapur indimenticabile a chi vi è stato. Durante il periodo delle grandi piogge, è difficilmente transitabile, e solo a piedi, nel tempo asciutto come il nostro, bisognava seguire nella strada i zig-zag fatti dai carri, andan su e giù, come la barchetta in mezzo al mare. "Che via brutta, forse i carri armati vi possono transire" vado pensando. Ad un certo punto della strada, a destra, c’era un braccio di "calova" o canale che si inoltrava nella campagna. "Da qui non si potrebbe accorciare?" dico al mio ragazzo. "Ma non c’è via e un viottolo ad un lato del canale, tracciato dai viandanti, e poi non so se ci porta alla meta, comunque domando a quello sdraiato su quel muricciolo. Quegli con un mezzo lume di ragione perché assonnato, risponde affermativamente, ma la via è quella sola" e ci addita. Non aspettiamo altro e ci avviamo di filato. Ah, padre, io non posso correre tanto, perché la mia bicicletta non ha i freni, anzi, è meglio che vada lei avanti e mi avvisa in tempo se deve scendere. Di tanto in tanto incontravamo qualche indiano che veniva dalla stessa strada con la testa bassa e che al mio arrivo si scostava rumorosamente e si fermava a guardare; o che seduto in mezzo ad essa guardava o fingeva di guardare ai buoi e bufali che pascolavano qua e là. Non poche volte qualcuno di questi stupidi di bufali ci ostacolavano il passaggio, potete suonare quanto volete, non si muovevano affatto, ma solenni come un monumento… Solo quando lo spingete con la ruota della bicicletta si decide a mettersi da parte. Meglio quei due o tre impertinenti di corvi che stancandosi della compagnia che crocida sugli alberi che corrono ai due lati del canale vengono sulla strada al vostro passaggio e quando sono quasi sotto la ruota, volano come burlandovi. Non conti quante volte dovemmo smontare, non ricordo ora se fu in una delle ultime che i miei freni mi risparmiarono una qualche piccola avventura, ma il mio ragazzo che questa volta mi seguiva da vicino, per salvare la situazione… dei due mali… o farsi un bagnetto e fare qualche capitombolo scelse quest’ultimo… e andò a finire giù nella campagna. Io ridi di gusto eh!, rideva anche lui più di me ma si lamentava che con una simile bicicletta era impossibile andare. "Passiamo all’altra sponda, là la strada è migliore". Passiamo rispondo io, passeremo da quel ponte. Il ponte giunse e consisteva in due lunghi tronchi di palme che si congiungevano in mezzo ad arco. "Da qui non si passa" dico, "Quegli, di sicuro, dia a me la bicicletta che gliela passo io e poi aspetta che gli do una mano io. Il ponte era lungo un 10 e più metri, ma non alto e l’acqua non profonda, in modo che un’eventuale caduta avrebbe dato solo occasione ad un bagnetto estemporaneo. Per un senso di personalità non aspettai, ma da solo tra, cade!… cade!, mi trovai all’altra sponda ancora col respiro ansimante, come il naufrago dantesco. Di nuovo in bicicletta, la strada sembrava alquanto migliore. Per quanto si camminasse, la meta giungeva… e quelli a dirvi è vicina, arriveremo subito. E allora mi ricordai… Ricordai che tutto il mondo è paese. Così un giorno chiese il mio rettore, grande camminatore che ci conduceva al Resegone, ad un viandante: "Quanto è lontano quel paese?" "Oh, tre chilometri". Ma dopo averne fatti sei e sembra di doverne fare sei. Finalmente si vede il paese. In diversa occasione mi sarei ricordato della Gerusalemme liberata, ma il mio pensiero allora, altri pensieri occupavano la mia mente. Ora facendo andare avanti il Battinada. Attraversiamo il villaggio di casta di mezzo al quale sorge una discreta pagoda. L’europeo, si capisce, attira gli sguardi, come qualcosa di nuovo per non dire come diceva quel tale che noi siamo bestie rare a questo popolo. Il villaggio dei poveri paria è un terreno basso più lontano; eh! Sono i servi di quelli di casta. Non una capanna fatta di mattoni in quell’ammasso incomposto di capanna attraverso le quali si aggirano indisturbati cani, porci, bufali. Una donna cristiana all’ingresso del villaggio ci saluta o ci mormora qualche parola che naturalmente non capii; in un attimo arrivammo al villaggio e la gente fattasi intorno ci dice che l’hanno seppellita da un bel pezzo. "E’ morta stamane poveretta" Le avete suggerita delle giaculatorie, delle aspirazioni" dico per mezzo dell’interprete, "Sicuro… c’ero io" dice il catechista, le ho fatto baciare più volte il crocefisso e la poveretta è morta col nome di Gesù e di Maria sulle labbra: dispiaciuta solo per l’assenza del Padre. Non domandai il perché, di fretta, perché conosco il costume indiano, solo faccio dire qualche buona parola al marito e ai due figlioli del mio ragazzo. Poco dopo prendemmo la via del ritorno. A pochi passi lontano vedo due ali di muri mezzo diroccati in mattoni e domando non cosa fu, ma cosa fu… "E’ l’antica cappella fabbricata dal Padre. Prima di venire sotto questo cannone per le nostre preghiere, i nostri vecchi andavano là". Non mi accontento di osservarla solo dall’esterno ma vi entro. Non vi dico l’impressione ricevuta. Essa quando era nuova, doveva essere una bella chiesetta; stile romanico, ma di transizione, a navata. Anche essa potrebbe essere un rudere artistico; e rudero l’è di fatti perché dall’apparenza sembra più antico del Campidoglio, ma senza l’aggettivo artistico. "Eh! Padre" mi fanno dire dall’interprete "I vecchi non volevano abbandonarla, ma poi, oggi un sasso, domani un altro sulla testa o altrove e poi l’un si andava moltiplicando di volta; insomma, furono costretti assolutamente ad abbandonarla". Eppure dicevo tra me, questa non ha nemmeno un secolo ma non mancherà assai che non ci sarà sasso sopra sasso, mentre da noi la scudre diversamente. Sarà colpa del Padre architetto… ma è da escludere perché da ciò che si vede, era un architetto ingegnere indottorato… il clima… il suolo saturo di salnitri… forse sarà colpa di ciò che si suol dire. Tanto compri quanto spendi… Qui cambiate i termini e la conseguenza è la stessa. Stavo per ritornare sulla stessa via quando domando al catechista se c’è qualche via più comoda e possibilmente più corta. "Per quale via hai condotto qui il Padre" dice il catechista al mio ragazzo, suo figlio che la Missione si incarica di farlo studiare… Sentita la risposta, sgrano tanto d’occhi e in tono maggiore "DO" come fanno gli indiani quando hanno una viva conversazione, lo sgrido perché mi aveva condotto per una via difficilissima e lunga. Indicatogli in due parole l’itinerario, montati in bicicletta filavamo che era un piacere. Discorrendo lungo la via mi diceva Battinada che ci eravamo affaticati tanto e inutilmente e che quindi doveva essere dispiaciuto. La mia risposta fu che io avevo fatto solo il mio dovere e il mio solo dispiacere era l’essere giunto troppo tardi e che se fosse morta a differenza di qualche ora la colpa sarebbe stata in parte tua, perché per esserci questa via, mi hai condotto per una più lunga a rischio di fare qualche improvvisata… Il mio Battinada si scusò col dire che queste strade ci sono e non ci sono. Ecco un esempio tipico per qualcuno di voi da presentare all’esaminatore se all’esame di filosofia vi dicesse: "Quid est contingens". Si giunse ad un canale sprofondato, tutto fango con un fil d’acqua in mezzo, naturalmente si dovette smontare delle biciclette e cercare il modo di passarlo. All’altra sponda proseguiva la strada. Se volevamo evitare il canale, dovevamo seguire la strada facendo un angolo di tre miglia, come se uno di voi venendo da Piacenza, perché interrotto il ponte sul Po dovesse andare fino a Venezia per andare a Milano. Il paragone è abbastanza intuitivo… Battinada si scalza, io lo seguo. "No", mi dice premurosamente lo faccio trasportare da qualcuno. Si guarda attorno per cercare una persona. Da lontano si vedeva venire una lunga processione di persone tutte in fila indiana. Giunta quella lunga teoria di figure dantesche uno dolosi, capito di che cosa si trattasse s’offese per una mezza rupietta "Sei matto" mi uscì spontaneo "con mezza rupia qui in India si viaggia per due interi giorni in barca, e per guadagnarla devono lavorare due giorni. In breve si conviene per tre anna tanto per farla finita. L’uomo mi prese in braccio credendomi gonfio di aria… e adagio adagino, un passo e poi l’altro, s’avanza nel fango. Giunto quasi al mezzo, non fu più capace a tirare della creta e dopo breve pausa… s’abbandona a terra. Il colpo me l’aspettavo e quindi mi tenni su di lui visto che non si decideva, né diceva niente, metto i piedi sul fango e facendomi leggero leggero, ritorno indietro. L’uomo insisteva di riportarmi ora sulle spalle una seconda volta. Scalzatomi e tiratosi i pantaloni più in alto che potevo lo guadai nel punto più facile. Fu lavoro del mio ragazzo lavarmi le scarpe e il resto calze non ne portavo e più freschi di prima montammo sui nostri cicli, e via di corsa. Incominciava a imbrunire. Le luci multiple e a tinte indefinibili del disco solare avvolto nelle nubi davano vita ad ombre che si tramutavano e ritramutavano in figure inseguentesi l’una l’altra. Sembrava di scorgere delle montagne le cui cime avevano ora il colore del calcar, ora quello della neve. Vi confessò che sembrò di trovarmi alla Grugana. La stessa sensazione la ebbi al mio paese in una delle solite passeggiate al porto dove seduto su di uno scoglio ammiravo quasi assopito quel tramonto, quando il suono della sirena di bordo, mi chiamò ad altri pensieri. Ma quella volta mancava il bel mare,le ombre si facevano più spesse, e in fondo al mio cuore sentivo un vuoto… Non una campana salutava al termine della giornata la Santa Vergine col saluto dell’Ave Maria, non si sentiva lo squillare delle campane gareggiando colla combinazione dei suoni e che è meglio lodare la Vergine solo in pochi villaggi si ha la fortuna di una campana, negli altra una sbarra di ferro di binario comprato o rinvenuto chiama i fedeli alla preghiera. Era notte quando giungevamo a casa… Lasciando la bicicletta per andarmi a lavare, mormorai: "Insuccesso di primo viaggio. Potei consolarmi pensando che tutti i grandi uomini nel principio della loro carriera sono stati sempre sfortunati… ma ogni regola ha le sue eccezioni.

P. Francesco Russello