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FESTA DELLA MAMMA

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Antiochia, 9 maggio 2004

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Oggi anche in Turchia è la festa della mamma.

Penso a diverse mamme antiochene.

Chi è stato ad Antiochia sa quanto è facile perdersi per gli intricati vicoli dell’antico quartiere ebraico.

Le viuzze, che sanno di un misto di aglio, muffa, legna bruciata, carne allo spiedo, grasso di frittura e cipolle rosolate, si incuneano tra le case che si protendono l’una verso l’altra e spesso si cammina tra muri e porte apparentemente uguali. Ma dopo un po’, l’occhio attento e l’orecchio vigile cominciano a riconoscere, dalle finestre addobbate in maniera originale, dalle voci e dagli odori che provengono, famiglie e storie che abitano questi luoghi. E le porte che si aprono su cortili immaginabili dall’esterno, schiudono a poco a poco racconti e drammi avvolti spesso da mura impenetrabili.

Oggi è domenica e questa mattina la città ancora sonnecchia lasciandosi cullare dal vento - che ormai caratterizzerà tutta la stagione estiva - e illuminare dal sole che già scalda con il suo tepore. Ma il profumo di uova fritte, di pane croccante, di caffè tostato o di tè nero, lascia intuire che mamme sveglie dall’alba stanno preparando la caratteristica abbondante colazione turca domenicale coronata da olive, cetrioli, pomodori, formaggio e miele.

C’è chi si accontenterà di molto meno, ma sarà comunque festa.

Così come in casa di Suhelya, in realtà un’unica stanza in affitto che si affaccia su un cortile in comune con altre famiglie. Trentacinque anni, madre di quattro figli e moglie di un uomo che, nell’attesa di un posto di lavoro fisso - promessa fatta da tempo, - ogni mattina si reca nella piazza principale della città (storia di rimembranze evangeliche) nella speranza che sia preso a giornata come muratore.

Come capita spesso, anche per questa colazione Suhelya avrà fatto l’ennesimo debito dal negoziante di alimentari e ormai la lista è così lunga che lui stesso dispera di vederla un giorno cancellata.

Ma forse oggi c’è una speranza in più: lei ha cominciato a lavorare all’uncinetto, riscoprendo un lavoro imparato ancora da ragazzina, quando era al villaggio, per prepararsi la dote. E le mani hanno ricominciato ad intrecciare fili secondo dei ritmi antichi. Impegnata a inventare disegni e motivi per abbellire asciugamani e bigliettini di auguri, ha abbandonato quelle sigarette che sanno di catrame, usate come passatempo e caccia-stress, ma così nefaste alla sua salute. E con la voglia di recuperare questo tesoro nascosto nel suo cuore, è tornato il sorriso sulle labbra e la passione per la vita. Fa niente se perde il sonno, per lavorare la notte, quando tutti dormono e lei si può concentrare meglio.

E Meryem? Sicuramente stamattina i suoi due figli le avranno fatto trovare qualche piccola sorpresa confezionata a scuola per la sua festa. Cinquantenne, ma ne dimostra settanta, consumata dal dolore, dalla fatica, dalla malattia. Vedova da tempo immemorabile, ha lavorato fino a spremersi, nei campi di cotone d’estate e come domestica d’inverno. E per superare dispiaceri e fatiche, affogava le sue lacrime nel vino, che non le ha procurato altro che una bella cirrosi cronica. Come si fa a giudicarla? Adesso non ha più forze, e i suoi figli, ora liceali, le hanno promesso che diventeranno entrambi dottori per curare lei e tutte le persone in difficoltà… Ma quanta strada ci vuole ancora? Intanto ha ripreso a lavorare a maglia e con le borse che riesce a confezionare sta cominciando a guadagnare qualcosa per il futuro dei suoi figli e per potersi comprare le medicine per sé.

Jaklin invano aspetterà un segno di augurio da sua figlia: Meltem ha un grave handicap mentale, e dopo dieci anni di cure affettuose ed instancabili, Jaklin si è arresa all’evidenza e ha concesso al suo ex marito – scappato da anni in Germania con un’altra donna – di provare a vedere se in Europa la figlia può avere un’educazione adeguata: da quasi un anno la bambina frequenta un collegio tedesco e al fine settimana torna nella sua "nuova" famiglia, ma di lei non si hanno più notizie.

Mi piace la grinta e la fede di questa mia coetanea: armena abituata alla durezza della vita e al dolore dell’anima, non si scoraggia, confida in Dio, e per non rimanere ad arrovellarsi il cervello, fa lavorare le mani.

Leyla, musulmana con un’ incrollabile fede nel Dio misericordioso e benevolo, non è da meno: sposata da quindici anni, subito dopo la luna di miele al paese d’origine – ovvero a pochi chilometri da Antiochia - lui è partito per l’Arabia Saudita in cerca di fortuna. Lui dice di lavorare, ma i soldi non arrivano. Lo vede solo una volta ogni tre anni (allo scadere del visto) e ogni volta, dopo le sue vacanze a casa, lui riparte riposato e ricaricato, lasciandola con tanta stanchezza e un nuovo figlio a cui dovrà accudire non si sa come e con cosa… Così lei ha imparato a fare tutto in casa, da padre e da madre, cucina splendidamente, tanto quanto sa riparare un guasto elettrico o un rubinetto che perde: dove trovare altrimenti i soldi per l’idraulico e l’elettricista? Ora però, con il ricavato dei manufatti che riesce a vendere ai turisti, può comprare orgogliosa, senza indebitarsi, quaderni e scarpe ai suoi figli.

Questi alcuni piccoli esempi di donne – siano esse cristiane o musulmane, che differenza fa di fronte a certi drammi comuni? - che hanno cominciato ad aprire la porta del loro cuore, vincendo paure e vergogne e, silenziosamente, grazie all’aiuto di tanti di voi, si è creato per loro "un angolo di speranza".

Certo, nella nostra piccolezza e povertà di mezzi, non promettiamo i miliardi come mesi fa hanno fatto i partiti politici per guadagnarsi voti alle elezioni amministrative, ma poi… chi ha vinto ha vinto chi ha perso ha perso! Non promettiamo la ricchezza a basso prezzo, così decantata nelle strade e nelle case in questi mesi, ma soltanto di riscoprire il tesoro che ognuna custodisce nel proprio cuore e nelle proprie mani e troppo a lungo seppellito e dimenticato dal dolore, dalla fatica per sopravvivere…e utilizzarlo come fonte di guadagno. Riscoprendo il potere della Vita e ritagliandosi anche pur piccoli spazi di libertà, di pace e creatività.

Ne spuntano piccoli capolavori inimmaginabili.

E accanto ad un supporto economico, si cerca di dare sollievo all’anima e dignità alla persona.

Le ferite, soprattutto quelle dell’anima, a volte neppure il tempo basta per rimarginarle. Si nutrono di ricordi e sensi di colpa, di angoscia e dolore, di incubi senza fine e allora si bussa con discrezione alla porta, dove ci sono lacrime da asciugare, volti solcati da ferite profonde che aspettano di essere lenite e curate con il balsamo della tenerezza, così come ha fatto colei che, secondo il vangelo di Marco, unse il Maestro, colui che è venuto ad annunciare "la liberazione dalla povertà, dalla prigionia, dalla cecità e dall’oppressione, dai segni di schiavitù e morte".

Chi vuole unirsi a noi in questo cammino di solidarietà?

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Mariagrazia Zambon