"Reportage"
dai villaggi,
dove da alcuni mesi l’epidemia è tornata a colpire e a uccidere.
E dove la prevenzione è resa difficile dalle condizioni di vita.
Gli sforzi delle autorità sanitarie per riportare sotto controllo la
situazione.
Uganda: vivere all’ombra di "Ebola"
La corsa contro
il tempo dei medici per ridurre i rischi di contaminazione,
anche con un’attività di sensibilizzazione.
«Non esistono vaccini, possiamo solo fornire cure di supporto».
In una regione dove la popolazione è affetta da grave malnutrizione,
imperversano altre malattie con sintomi analoghi:
malaria, febbre tifoide, meningite, "shigella".
Da Kampala,
Laura Malandrino
("Avvenire",
15/2/’08)
Sulla strada tra Kabale e
Masaka che conduce ad Entebbe l’illuminazione pubblica si spegne alle 19.45.
Rimangono accese solo le insegne "fluorescenti" di alcune attività
commerciali, i "neon" del "Motel Agip", le lampadine di uno
"shop center", l’insegna di "Radio West Gamba Mparire" e
quasi tutte le luci dentro il "campus" dell’Università di Mbarara.
Secondo le segnalazioni ufficiali questa è tra le aree più a rischio di
epidemia. Casi di "Ebola"
sono stati confermati, ma il numero resta imprecisato. Eppure la quotidianità
scorre come se nulla fosse. I giovani affollano i taxi collettivi, i ristoranti
e i bar dove "Coca-Cola" e super alcolici vengono consumati a lume di
candela, ma non certo per romanticismo. L’elettricità nell’Uganda
"filo-anglosassone" resta un bene di lusso da consumare con
parsimonia, locali pubblici compresi. Lungo la strada asfaltata, alle
costruzioni di cemento a più piani si alternano "casupole" di legno e
latta attaccate a "fatiscenti" baracche davanti alle quali la gente si
ferma a parlare e mangiare. Bambini giocano vicino alle condutture della
fognatura a cielo aperto poste ai bordi della carreggiata noncuranti del
"tanfo" che esala da terra. Nessun manifesto avvisa che una delle
forme di trasmissione del virus dell’Ebola è proprio attraverso le feci.
Neppure alla periferia di Mbarara e nei "sobborghi" di Masaka, dove le condizioni
"igienico-sanitarie" sono precarie e la "promiscuità" tra le persone è
maggiore, si vedono avvisi particolari sul "virus letale". Il primo
manifesto visibile si legge al confine tra la "Repubblica democratica del
Congo" ("Rdc") e il Paese governato da Yoweri Museveni, alla
dogana tra Kasindi e Lubiriha: "Il virus fino al 90 per cento dei casi è
mortale. Si presenta come un’influenza: febbre, mal di testa e dolori
muscolari. Poi subentrano vomito, diarrea, sanguinamento - spiega l’avviso
affisso nella "casermetta" della Polizia locale - . Si trasmette
attraverso il contatto con i fluidi corporei. Per prevenire una epidemia è
necessario segnalare i potenziali casi di malattia alle autorità
sanitarie".
I militari, fucili alla mano, controllano il transito di auto, moto e camion,
comprese merci e persone. Passati gli estenuanti controlli, bambini mal vestiti
salutano correndo a piedi nudi sulla strada sterrata di polvere rossa. Giocano
intorno a conche di acqua "putrida", toccano tutto quello che capita e
poi portano le mani alla bocca. La prevenzione resta solo un "pezzo di
carta". La gente non sembra temere i morti del vicino villaggio di
Bundibugyo, sempre al confine con la "Rdc", dove Ebola il 30 novembre
scorso ha stroncato il medico Muhindo Jeremiah, il 4 dicembre due balie, tre
giorni dopo il 7 dicembre il fratello di Jeremiah e il giorno dopo Asanasio
Kinyerere, oftalmologo e clinico presso l’Ospedale di Bundibugyo.
Qui e nel Centro di salute di Kikyo dal primo dicembre è una corsa contro il
tempo per l’"équipe" di "Medici
senza frontiere" ("Msf")
composta da dodici specialisti in "febbri emorragiche", che hanno messo in piedi
due unità di isolamento e avviato durante i funerali dei pazienti deceduti
attività di sensibilizzazione per ridurre i rischi di contaminazione. Come
spiega Armand Sprecher, medico di "Msf" specializzato in febbri
emorragiche: "Non esiste né un ‘antidoto’, né una cura per questa
malattia. Di conseguenza le cure che possiamo fornire sono solo di supporto e
‘palliative’. La maggior parte dei nostri sforzi sono indirizzati a
controllare l’epidemia, tramite l’identificazione dei malati e il loro
isolamento dal resto della popolazione. Questo è quanto stiamo facendo sia nell’ovest
dell’Uganda che nella ‘Repubblica democratica del Congo’". Anche a
quindici chilometri da Luebo, nel villaggio di Kampungu, "epicentro" dell’epidemia
di Ebola che ha colpito la "Rdc", "Msf" ha creato una unità
di isolamento. A rassicurare sull’andamento della situazione è l’epidemiologo
Michel Van Herp. "Siamo ormai vicini ad avere l’epidemia sotto controllo
- aveva detto già tre mesi fa - . Ma rimaniamo vigili perché il virus continua
a circolare in alcuni villaggi vicini". Come viene confermato da più
parti, sia in Uganda che nella regione congolese del Kivu, l’allerta rimane
massima. "Il periodo di incubazione di Ebola può arrivare fino a tre
settimane", spiega Samuel Kazinga, responsabile del distretto di Bundibugyo.
In giro, insomma, ci potrebbero essere persone infettate che ancora non hanno
sviluppato i sintomi. Intanto, in questa zona di confine tra l’Uganda e la
"Rdc", dove la maggior parte della popolazione è affetta anche da
grave malnutrizione, altre malattie con sintomi simili a quelli della prima fase
dell’Ebola imperversano: malaria, "shigella", febbre tifoide e
meningite. Mentre nella "Rdc" le autorità rendono nota una epidemia
di colera. Come succede sempre in questi paesi, soprattutto per il colera,
ancora una volta le prime vittime sono le donne. Una delle ragioni è che
dormono per terra, dove il contagio è facilitato, mentre gli uomini usano i
"giacigli". Se da una parte monta l’emergenza sanitaria riconosciuta
a livello internazionale, dall’altra la vita della gente, già provata dalle
guerre e dalla povertà, è segnata da altre priorità, prima fra tutte il
reperimento del cibo e dell’acqua. "La situazione è tranquilla. Non c’è
da preoccuparsi. È tutto passato", dice Deo Grazias, congolese diretto ad
Entebbe. Un modo per "esorcizzare" la paura della "febbre emorragica" in
questo angolo sperduto dell’Equatore dove gli uomini, le donne e i bambini
continuano a morire.
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Un virus che arriva dai pipistrelli
Nei mesi scorsi
accertati 115 casi e 31 morti.
Epidemie periodiche in vari Paesi dell’Africa centrale.
"Ebola" è una malattia virale scoperta nel 1976 nell’ex Zaire, attuale "Repubblica democratica del Congo", e in Sudan. Da allora epidemie periodiche di questo virus e di quello di "Marburg", simile all’Ebola, sono state registrate nell’Africa centrale: Gabon, Uganda, "Repubblica Democratica del Congo", Congo-Brazzaville, Sudan e Angola. La sua origine potrebbe essere nei pipistrelli, poi si sarebbe trasmesso alle grandi scimmie e all’uomo. Il dato scientificamente provato è che tra gli uomini si contagia attraverso il contatto con i fluidi corporei (sangue, vomito, diarrea), ecco perché tende a diffondersi tra il personale sanitario e i familiari dei pazienti. La malattia inizialmente si presenta come un’influenza: febbre, mal di testa e dolori muscolari. Poi subentrano vomito, diarrea, sanguinamento da naso e gengive ed emorragie interne, anche se il "ceppo" che si è manifestato a partire dai mesi scorsi nell’ovest dell’Uganda provocherebbe il decesso solo con forte febbre. Si tratta di una forma nuova, con caratteristiche differenti, spiegano dall’"Organizzazione mondiale della sanità" ("Oms"). La malattia è molto contagiosa e risulta mortale dal 50 al 90 per cento dei casi, a seconda del "ceppo" del virus. Nella storia dell’Ebola e del "Marburg" ci sono stati duemila morti accertate. Secondo i dati ufficiali circa 200 persone sono morte di Ebola nel nord dell’Uganda nel 2000 e altri 40 piccoli "focolai" sono stati individuati nei mesi scorsi, per un totale di 115 casi accertati e 31 morti. Mentre, da settembre 2007 a oggi, nell’unità di isolamento di Kampungu – un villaggio di 9mila abitanti nella "Repubblica democratica del Congo" vicino al confine con l’Uganda – sarebbero stati segnalati 384 casi sospetti. Su 53 prelievi sanguigni effettuati, però, solo 23 sarebbero risultati positivi al virus Ebola. Dati ufficiali che non convincono gli osservatori, secondo i quali i casi sarebbero molto più numerosi, semplicemente sconosciuti.
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Farmaci: le
malattie dimenticate
di un continente poco «redditizio»
Paolo M. Alfieri
L’errore più grosso è
quello di considerare i farmaci, bene primario per la vita, alla stregua di
qualsiasi altro prodotto. Le "distorsioni" del «mercato della
salute» altro non sono, sottolineano gli esperti, che il frutto inevitabile di
una scelta sbagliata all’origine. Quella di equiparare, a livello di
"brevetti" e strategie industriali, un medicinale a un telefonino, un
vaccino a un computer, una pillola a un televisore. È così che si spiegano,
suggeriscono gli osservatori, alcuni dati "inquietanti". Per fare un
esempio: dei 1.393 nuovi farmaci approvati tra il 1975 e il 1999 appena 13 (l’1%)
erano destinati alla cura delle malattie tropicali e della tubercolosi. E solo
di "Tbc" si ammalano ogni anno 9 milioni di persone, i morti sono 1,7
milioni.
Non si tratta di una mancanza di fondi: l’industria farmaceutica ha un
fatturato che sfiora i 400 miliardi di euro, il 25% in più del "Pil"
dell’Africa "subsahariana". Ma il mercato africano «vale» solo l’1%
del mercato mondiale dei farmaci. Insomma, il "Continente nero" non è
redditizio. Al contrario le malattie che più colpiscono il Nord del mondo,
quello che più facilmente può permettersi di spendere per la propria salute,
assorbono l’85% del mercato.
Lo "squilibrio" è tutto qui: la ricerca scientifica, sono gli stessi
medici a dirlo, è guidata dall’interesse commerciale. Non è un caso che tra
le malattie «dimenticate», ce ne sono alcune, come la malaria e l’"Aids",
che lo sono un po’ meno, riguardando almeno in piccola parte anche
«pazienti-consumatori» del Nord del mondo. Viceversa per il "morbo di
Chagas" in America latina o per la "malattia del sonno" in
Camerun gli investimenti "latitano". E così nei Paesi in via di
sviluppo muoiono ogni giorno 35mila persone di malattie che ignoriamo o che
releghiamo, nel nostro immaginario, a epoche passate. Dalla poliomielite alla
malaria, dalla lebbra alla febbre gialla.
A fare il resto sono le "lacune" che registra la sanità di base nei Paesi poveri.
Quelli nei quali un unico dispensario fa da "catalizzatore" per decine
di migliaia di persone. Senza contare la questione dei "brevetti".
Anche per i farmaci, infatti, vigono gli accordi "Trips", che
difendono i diritti delle proprietà intellettuali. E così il mercato di un
farmaco "salvavita" può essere "monopolizzato" per vent’anni
da chi lo ha prodotto. Una politica utile sì a difendere gli investimenti. Ma
che si rivela un "boomerang" per milioni di persone nel mondo che a
quel farmaco (né tanto meno a un "generico equivalente") non potranno
mai avere accesso.