La "politica estera" dell’ormai prossimo Obama
L’arma del
"dialogo" con tutti.
Non solo con gli amici
Riccardo
Redaelli
("Avvenire",
11/1/’09)
L’antica "regola" che impone un’attesa di oltre due mesi per l’"insediamento" il 20 Gennaio del Presidente, eletto all’inizio di Novembre, ha lasciato la politica degli Stati Uniti in un "limbo" quasi irreale: con l’"Amministrazione Bush" ormai uscente, innominabile per gli stessi "repubblicani" in "campagna elettorale", e un nuovo capo della "Casa Bianca" verso il quale si sono concentrate attese enormi, eppure quasi "invisibile" nei giorni della "crisi" di Gaza. Un "limbo" finito con le sue "dichiarazioni" in occasione della presentazione dei nuovi capi dei "servizi" statunitensi. Poche parole ma estremamente chiare, che segnano un indirizzo netto delle "linee guida" della nuova politica estera e di sicurezza. Una politica che sarebbe sciocco immaginare radicalmente mutata, ma che vuole segnare forti "discontinuità" con quella di Bush. No all’uso della "tortura", neppure per difendere la sicurezza degli "Usa". Si cancella così una delle idee base della precedente "amministrazione": combattere il "terrore" adottando alcuni suoi comportamenti e rinunciando a scelte considerate ormai "intangibili" per le "democrazie" occidentali, come il rispetto della dignità umana, anche di quella dei "terroristi", il rifiuto delle violenze sui prigionieri. È un messaggio forte, che vuole rilanciare l’immagine degli Stati Uniti e che si associa alla promessa di cercare migliori vie di "dialogo" con il "mondo islamico", non solo con i governanti "mediorientali" amici degli Stati Uniti. L’idea di un "discorso" sull’"islam" (e all’"islam") da tenersi in una delle grandi "capitali" della regione è stata variamente accolta. C’è chi la ritiene un passo necessario e obbligato dopo gli otto anni di Bush, e c’è chi pensa possa essere percepita come una nuova dimostrazione di "condiscendenza" da parte dell’Occidente, risultando quindi "controproducente". In ogni caso, è il segnale che Obama intende frenare la crescita dell’"anti-americanismo" e il declino della credibilità politica dell’unica "super-potenza" in tanti "scacchieri geo-politici" mondiali. Anche il suo sottolineare che l’Iran rimane una minaccia, ma una minaccia verso la quale bisogna muoversi privilegiando le armi della "diplomazia", rappresenta una "sconfessione" del "dogma" caro al vice-presidente Cheney: «Non si parla con il "diavolo"». L’America torna a capire che la "diplomazia" serve proprio per "dialogare" con l’avversario, non solo con gli amici, e che ci si potranno aspettare iniziative forti da parte di Washington nei prossimi mesi (e non solo verso il "Medio Oriente": anche il "deterioramento" delle relazioni con la Russia preoccupa lo "staff" presidenziale democratico). In molti si aspettano pure il rilancio di una politica "multilaterale" sulle principali questioni mondiali. E forse già un segno si è visto con l’astensione "Usa" sulla risoluzione "Onu" che impone il "cessate il fuoco" a Gaza. Un segnale da non "sovrastimare", ma che non deve essere ignorato e che indica una certa "convergenza" nella "comunità internazionale". L’attacco israeliano a Gaza aveva infatti prodotto forti "lacerazioni": l’Europa divisa fra chi sosteneva senza riserve Israele e chi mostrava disagio per la violenza dell’attacco; Washington schierata come sempre con gli israeliani; i Paesi Arabi "moderati" in crescente imbarazzo; il cosiddetto "quartetto" ("Usa", Russia, "Unione Europea" e "Onu"), che in questi anni doveva coordinare gli sforzi per il "processo di pace", "pateticamente" inutile. Ora, con il prolungarsi del "conflitto" senza che gli obiettivi israeliani sembrino completamente raggiunti e con il numero dei morti e dei feriti "civili" sempre crescente, aumentano gli imbarazzi per la "situazione umanitaria" nella "Striscia". E si riducono le differenze fra le posizioni "internazionali". Che non significa immaginare un Presidente "Usa" "meno amico" di Israele; ma forse più "flessibile" e "bilanciato" nelle prese di posizione. E che veda nelle "Nazioni Unite" e nelle "liturgie diplomatiche" del "Palazzo di Vetro" uno strumento ancora utile, pur con tutti i suoi ben noti "limiti".