Birmania, la religione «buona»
Dopo decenni
in cui ci eravamo abituati a considerare ogni fede
come pericolosa fonte di fanatismo e intolleranza,
la straordinaria protesta dei monaci di Rangoon
ha mostrato al mondo che il credo può essere scuola impareggiabile di pace.
E che il rispetto del trascendente assicura una reale libertà dal «potere».
Intellettuali a confronto.
Il cristiano:
la resistenza viene dal legame col "Mistero"
Rondoni: «Ma
non si può esaltare l’esempio birmano
e poi coltivare il più "bieco" ateismo,
ragionando sulla vita come se Dio non c’entrasse mai».
Davide
Rondoni
("Avvenire", 6/10/’07)
La riflessione di Lagazzi,
che ha lo "stigma" della personale esperienza oltre che della cultura,
tocca un punto al tempo stesso supremo e però ambiguo. O almeno fino a che non
si procede oltre, come Lagazzi sa bene, a vedere quali siano le «radici» di
quell’atteggiamento di "non-violenza" che nella pacifica
insurrezione dei monaci birmani ha trovato tragica e dolcissima espressione.
La "non-violenza" nasce da qualcosa che viene prima, da qualcosa che
la fonda, e che ne fa non un "totem" ma uno strumento. Che la rende
non una "utopica" forma estrema di resistenza, ma una delle
conseguenze possibili radicate in una visione del mondo e dell’uomo.
Occorre dunque prendere sul serio la speciale testimonianza dei monaci.
Non si tratta di addentrarsi nella storia delle religioni, e del loro misterioso
e affascinante ramificarsi. Non occorre diventare teologi o specialisti del
buddhismo per comprendere e sperimentare da dove nasce quell’atteggiamento.
Bensì occorre essere religiosi. Ciascuno seriamente secondo la propria
tradizione o la propria conversione. Scoprire che nella concezione di cosa è l’uomo,
di quali siano i caratteri essenziali della nostra vita individuale e sociale,
entra come fattore determinante il rapporto con il "Mistero". Senza
tale rapporto, infatti, l’uomo diviene un oggetto, una funzione, qualcosa che
vale a seconda di quanto è consono ai progetti di chi detiene il potere. Che si
tratti di uno spietato regime comunista e militare come nell’ex Birmania, o di
un "totalitarismo" strisciante e "sentimentaloide" come vige
da noi, poco cambia. Senza rapporto con il "Mistero" l’uomo non ha
da dove trarre i motivi del proprio inviolabile valore. Né dunque della
necessaria opposizione a tutto ciò che lo priva di libertà o ne reprime vita e
sviluppo. L’appartenenza al "Mistero" è l’opposizione a ogni
pretesa di render gli uomini appartenenti al potere. Non a caso i peggiori
totalitarismi di questo secolo sono stati nutriti da ideologie
"sorelle" nel costringere l’uomo entro orizzonti senza trascendenza,
senza mistero, come la classe, la razza, la nazione, la rivoluzione. La sgomenta
ammirazione per i monaci deve trascinare la nostra coscienza mitemente contro
tutto ciò che intorno a noi fa a pezzi la dimensione religiosa dell’uomo, la
"irride", la scambia con comode "caricature". I capolavori,
le santità possono aiutarci. Molta parte dei "leader" del nostro
Paese parlano della religione a vanvera, solo come di una morale, invitano il
clero a fare da "guardia di finanza", oppure trattano le derive
fondamentaliste come le più rappresentative dello spirito religioso. O lo
irridono sulle loro copertine. Veniamo da decenni in cui la morte di Dio è
stata cantata e desiderata da una classe intellettuale che ne prevedeva l’"eclisse"
dalla scena pubblica. Sono stati smentiti, ma non abbandonano il loro posto.
Decenni in cui l’arte, la musica, il sesso e la scienza sono state concepite e
insegnate come se Dio non c’entrasse mai. Magari dagli stessi che alzano
"gridolini" di ammirazione per i giovani monaci. Li lodano mentre
coltivano il più "bieco" spirito "antireligioso" ragionando
sull’uomo a proposito di aborto, eutanasia, o serietà della scienza e sui
contenuti educativi per i giovani.
La non comune testimonianza dei monaci martiri, come di tanti da noi – penso
ai nostri monaci, a chi resiste con opere di carità e di educazione contro una
violenta indifferenza anche del potere, o agli obiettori di coscienza, sia in
caserma che negli ospedali – è un richiamo a strappare dal nostro volto la
maschera che una cultura "irreligiosa" e idolatra ha imposto.