Birmania, la religione «buona»
Dopo decenni
in cui ci eravamo abituati a considerare ogni fede
come pericolosa fonte di fanatismo e intolleranza,
la straordinaria protesta dei monaci di Rangoon
ha mostrato al mondo che il credo può essere scuola impareggiabile di pace.
E che il rispetto del trascendente assicura una reale libertà dal «potere».
Intellettuali a confronto.
Il buddhista: dai bonzi la vera «guerra santa»
Lagazzi:
«Solo alla luce della "nonviolenza" tutte le grandi spiritualità
potranno riscoprirsi fraterne e opporsi ai fondamentalismi».
Paolo
Lagazzi
("Avvenire", 6/10/’07)
Malgrado i tanti
commenti sui fatti di Birmania
dei nostri giorni, non mi pare si sia ancora sufficientemente sottolineata l’eccezionalità
della rivolta non violenta dei monaci buddhisti. Dopo innumerevoli libri, viaggi
e scambi di notizie, dopo tante esperienze in comune di preghiera e meditazione
messe in atto da cristiani e buddhisti di buona volontà, ancora esistono in
Occidente idee riduttive, distorte e ingiuste sul buddhismo in genere.
Senza dubbio non pochi continuano a pensare, con Bergson, che il buddhismo sia
un «misticismo incompleto» perché incapace di riconoscere il valore dell’azione
umana e perché carente di calore intimo. Ma questa visione, del tutto
inadeguata già negli anni della guerra americana in Vietnam (come dimenticare l’"autoimmolazione"
dei monaci nelle fiamme, testimonianza di una passione che solo Dio, non certo
gli uomini, può giudicare?), è di nuovo radicalmente contestata dalle lunghe,
pazienti e trepide sfilate dei monaci con le braccia nude, le teste rasate e i
piedi scalzi a Rangoon e altrove. Da una parte un esercito di straordinaria
ferocia, dall’altra migliaia di religiosi che camminano armati solo della loro
speranza in un mondo diverso… Tanto più singolare può apparire questa
coraggiosa e tenace, per quanto pacifica, sollevazione a chi consideri che il
buddhismo birmano è "Theravadin", cioè del «piccolo carro»: una
corrente, come insegnano gli storici delle religioni, votata a una pratica di
perfezionamento piuttosto individualistica (il santo "arhat"), mentre
è l’altra corrente buddhista, quella del «grande carro» (a cui appartengono
il "lamaismo tibetano" e lo "zen") a insegnare una via
«aperta» e sociale della santità, quella del "bodhisattva". In
realtà proprio nei momenti cruciali della storia lo Spirito (che soffia dove
vuole) sa superare d’un balzo gli "steccati", le categorie e i
confini entro cui vorrebbero rinchiuderlo i detentori "professorali"
del sapere e della morale. Lontana anni luce da quasi tutto ciò che il nostro
mondo assediato dal fondamentalismo ci va quotidianamente
"squadernando", la mite resistenza al male portata avanti dai monaci
birmani è quanto di più prossimo si sia prodotto nella storia dell’ultimo
mezzo secolo alla sublime rivoluzione di Gandhi. In questi anni sempre più
"ipotecati" dalla «religione» della ferocia e della distruzione dell’altro,
sarebbe davvero salutare per tutti riscoprire i pensieri del Mahatma: il suo
inno ardente al "Sermone della Montagna", il suo invito agli islamici
a cogliere il "nocciolo" vero, «non violento» del Corano… Solo
alla luce della "nonviolenza" tutte le grandi religioni potranno
riscoprirsi fraterne traendo da questa consapevolezza la forza per l’autentica
"guerra santa", quella da combattere affinché finiscano tutte le
guerre. Intanto, mentre i monaci buddhisti cominciano a non poter più sfilare
lungo le strade della Birmania perché picchiati, torturati, imprigionati o
uccisi, è ancora una volta, miracolosamente, la carne e il sangue di Cristo che
ci sembra di riconoscere in ciascuno dei loro corpi innocenti e martoriati.