È arrivata l’acqua. E a Natale, forse, la corrente...

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Chiara Castellani*
("Mondo e Missione", Dicembre 2006)

Il 14 ottobre verso mezzogiorno, sotto il caldo afoso della stagione delle piogge, all’ospedale di Kimbau è successo un miracolo, o meglio «quel» miracolo, che avevo aspettato per oltre quindici anni: abbiamo aperto un rubinetto ed è sgorgata per la prima volta acqua pulita.
Avevo cercato in tutti i modi di far arrivare acqua al mio ospedale. Ci sono riuscita grazie alla testardaggine di Paolo Moro e di Mario Caniatti, ma anche grazie al sostegno silenzioso e minuzioso di
Mariapia Bonanate (co-autrice, tra l’altro di "Una lampadina per Kimbau"), che ha coinvolto a macchia d’olio centinaia di persone.
Mentre toccavo quell’acqua limpida e fresca come per controllare se non era finta, ho sentito le lacrime agli occhi, non riuscivo a trattenere la commozione e anche oggi, che stiamo aprendo e chiudendo i rubinetti in ospedale, non mi sembra vero. Ora manca la seconda parte del miracolo: quello di schiacciare un bottone e vedere una lampadina che si accende, anzi tante lampadine al neon che si accendono come le luminarie in ospedale.
Riusciremo a farlo prima di Natale? In realtà non ci vuole poi molto: basterebbe cambiare un trasformatore che è in corto-circuito. Ma nel frattempo sono finiti tutti i soldi, e perciò per riuscire ad accendere la lampadina temo ci vorrà ancora del tempo e l’aiuto di tanti amici. Mio zio Danilo che di questo progetto è lo «zio onorario», dice che i progetti sono come gli scorpioni: hanno il veleno nella coda. Lo trovo un paragone molto africano, però a me ex-maratoneta e testa dura anche per quello, piace invece pensare che un progetto è come una maratona, gli ultimi chilometri sono i più difficili, il passo si fa pesante, ansimi, ti si appanna la vista. Ma anche se non ce la fai proprio più, sicuramente non ti puoi ritirare negli ultimi chilometri.
Proprio per questo, non solo non mi scoraggio, non è nel mio carattere. E soprattutto non posso scoraggiarmi per un problema di soldi: cosa sono i soldi di fronte alla tragedia di un bambino che muore? Solo che poi mi chiedo anche perchè si debbano spendere quindici anni e tanti soldi per realizzare il sogno che è anche diritto, quello di avere luce ed acqua in un ospedale.
Per farvi capire come mai c’è voluto tanto tempo e in quel troppo tempo siamo rimasti troppe volte senza soldi, voglio raccontarvene la storia.
Era il 1994 quando l’abbé Luhango aveva tanto insistito per portare suor Teresa e me alle cascate del fiume Mvula, dove lui già allora sognava di installare una turbina o almeno un mulino ad acqua. Anzi lo sognava da tempo, se è vero che tutti i visitatori li portava a vedere quella cascata. «Masa yo ke ngolo!», avevamo commentato. Significa che l’acqua viene giù con forza e fa un bel rumore, il che è un po’ romantico. Significa anche che da profani non avevamo capito nulla di cosa vuol dire «portata d’acqua» e «salto» e soprattutto che ci eravamo infilati in quella folle avventura. Quella visita «turistica», in realtà, era un viaggio di sola andata. Come sa bene mio zio Danilo, che coinvolsi sin da quella prima volta. Grazie alla sua testardaggine a quella cascata ci sarei tornata ancora molte volte.
Le prime volte fu con Gianna, infermiera lei, medico io, due incompetenti armate di barometri, termometri, manometri, altimetri ed altre diavolerie… Poi con i vari Mario, Paolo, Pietro, ancora Mario, tutti elettrotecnici ultrasessantenni che si sono lasciati coinvolgere nel progetto con l’entusiasmo di adolescenti. E ovviamente zio Danilo, il più entusiasta di tutti, che di anni nel frattempo ne avrebbe compiuti «solo» ottanta.
Alla fine la turbina l’abbiamo installata sul fiume Nzasi, un altro affluente dell’Inzia. Finalmente è arrivato Paolo che ha concretizzato il sogno trasformandolo in una diga di cemento. E da quel momento tutto era sembrato facile; solo Paolo si angosciava delle piccole incoerenze di progettazione, che un giorno ci sarebbero costate così care. Le spese hanno sforato un’altra volta il "budget" a causa delle "panne" non previste e che forse erano inevitabili. A volte con Mario ci diciamo, scherzando, che sulla centrale aleggiano i "bandoki", cioè gli spiriti maligni. A Natale dell’anno scorso si è aperta una crepa nella diga; sotto elezioni era la turbina che rifiutava di girare; adesso è in corto-circuito il trasformatore…
Io però non perdo la speranza. E continuo a sognare che a Natale accenderemo le lampadine. Non sull’albero, ma all’ospedale di Kimbau.

* Medico missionario in Congo