Birmania: affollata asta, con la Cina in prima fila
L’indignazione passa presto.
Per ora vincono le pietre
preziose
Gerolamo
Fazzini
("Avvenire",
22/11/’07)
Hanno sperato che per il
loro Paese si aprisse una nuova pagina. Erano convinti che le drammatiche
notizie che, per alcuni giorni, hanno tenuto banco sulle prime pagine dei
giornali avrebbero aperto uno squarcio nel velo di omertà e silenzio steso
negli anni dal regime birmano. Contavano sull’impatto delle terribili immagini
che documentavano la brutale repressione in atto in Myanmar.
Hanno creduto che la comunità internazionale, scossa da tutto ciò, si
sollevasse finalmente da un torpore colpevole. Invece... A distanza di poche
settimane dalla "rivoluzione color porpora" siamo qui a constatare che
i cambiamenti sono solo di facciata. Che tutto è rimasto dov’era e com’era.
Che le mobilitazioni di piazza in Occidente e le manifestazioni di solidarietà
– assai più effimere e molto meno convinte che in altre occasioni – non
hanno prodotto effetti di rilievo.
Come dar torto, a questo punto, agli esuli birmani, alla loro delusione? I fatti
parlano da soli. Lo scandaloso traffico di pietre preziose, una delle principali
fonti cui ricorrono i militari per rimpinguare le dissestate casse statali,
continua. Come se nulla fosse.
Nonostante il "boicottaggio" sui preziosi importati o lavorati dal
Myanmar, proclamato da alcune delle più note case di gioielli del mondo e da
alcuni governi, nell’ex capitale Yangon è iniziata – e sta proseguendo col
vento in poppa – un’asta di pietre preziose che vede in prima fila
compratori dalla Cina.
Quella Cina che, con ogni probabilità, utilizzerà la giada per realizzare
"souvenir" per i turisti che affolleranno Pechino alle prossime
Olimpiadi. Quella Cina che ha in mano, più di tutti, le chiavi per la soluzione
del "rebus-Myanmar". Ieri, poi, la "Commissione diritti
umani" dell’"Assemblea generale dell’Onu" ha sì approvato
una risoluzione di condanna contro la giunta birmana.
Ma il documento non è vincolante. Ed è passato con 88 voti a favore, ben 66
astensioni e persino 24 contrari, tra cui – guarda caso – la Cina. Nello
stesso giro di ore, l’"Asean" ("Associazione dei Paesi del
Sud-Est asiatico"), pressata dalle proteste birmane, cancellava l’intervento
dell’inviato speciale "Onu" in Myanmar, Ibrahim Gambari
considerandolo una "distrazione" nel programma dei lavori. Gambari ha
comunque avuto alcuni incontri bilaterali con singoli rappresentanti dei Paesi
membri. Col risultato, però, di sentirsi rinfacciare, dai rappresentanti di
Malaysia e Indonesia, l’accusa di «ingerenza in affari interni», la stessa
– coincidenza eloquente – avanzata dal Ministro birmano Thein Sein.
Difficile, a questo punto, non condividere il pessimismo e il senso di
frustrazione della popolazione birmana. Sul fronte interno tutto sembra come
prima. «I gesti di buona volontà del governo come la scarcerazione dei
detenuti protagonisti delle proteste di settembre – denunciano fonti locali
– sono falsi»; non di rado chi viene rilasciato ha subito violenze talmente
gravi da pagarle con la vita. E Aung
San Suu Kyi,
"leader" degli oppositori democratici, di fatto non è libera di
parlare con i generali, come invece essi vanno raccontando al mondo. Ma è
soprattutto sul versante internazionale che la situazione è pericolosamente (e
scandalosamente) stagnante. Il neoinviato "Ue" per il Myanmar, Piero
Fassino, si sta muovendo animato da buona volontà . Tuttavia, attorno, il
quadro appare abbastanza desolante.
La comunità internazionale, nei fatti, si sta dimenticando del Myanmar. Siamo a
un momento cruciale. Non possiamo concedere alla giunta militare il lusso di
pensare che l’indignazione del mondo sia stata un’emozione passeggera. Che
contano più gli affari dei diritti, che il cinismo sia la prima regola della
politica... Il popolo birmano non ce lo perdonerebbe mai.