L’INTERVISTA
Ranieri: temo che su Yangon calerà il silenzio
Il presidente "Ds" della "Commissione
esteri" della Camera:
«I pacifisti tendono a raffreddare il loro impegno Questo è un vecchio
vizio».
Da Roma,
Giovanni Grasso
("Avvenire", 10/10/’07)
«Ho il timore che il silenzio cada su Yangon, sul movimento per la democrazia guidato dai monaci e dai giovani birmani». Umberto Ranieri ("Ds"), presidente della "Commissione Esteri" della Camera, non esita a puntare il dito contro le responsabilità vecchie e nuove dell’Occidente (e anche di certi pacifisti "nostrani") sulla questione birmana. «Il mio timore – spiega Ranieri in questa intervista – è purtroppo giustificato dalla considerazione che già in passato la comunità internazionale e anche i Paesi occidentali hanno spesso voltato lo sguardo rispetto a tragedie come quella che sta vivendo oggi la Birmania».
In effetti, guardando al passato più recente, non ci sono dei buoni precedenti...
Poco e nulla si fece nel 1988, dopo le sanguinose stragi a Yangon, dove tremila persone furono vittime della repressione della giunta militare. E la comunità internazionale distolse lo sguardo dalla Birmania anche dopo il 1990, quando si svolsero le uniche elezioni libere, vinte dal premio "Nobel" per la pace Aung San Suu Kyi, e subito annullate dall’esercito. Dal 1992, da quando al potere c’è questa "fazione" della giunta militare, con a capo un dittatore spietato e senza scrupoli, la Birmania sta vivendo un periodo senza precedenti di sofferenza e di miseria. Si pensi solo che il Paese asiatico ha raggiunto il "record" negativo della nazione più corrotta del mondo.
Ci furono le sanzioni dell’Onu contro il regime birmano...
Certamente, ma non furono rispettate da tutti. La verità è che ci sono forti interessi economici che coinvolgono anche i Paesi occidentali e che offuscano la centralità della questione dei diritti umani. Penso a esempio alla "Total", la multinazionale francese dell’energia, che ha fortissimi interessi in Birmania e che si è sempre rifiutata di fare un gesto di rottura con il regime. Le responsabilità maggiori, però, sono dei Paesi attivi nella Regione: la Cina, l’India e la Russia. La Cina sostiene il regime per assicurarsi i flussi di risorse energetiche; la Russia è impegnata alla costruzione di un reattore atomico; l’India copre da anni le "malefatte" dei generali corrotti e tiranni per interessi "geopolitici" e per sfruttare le risorse birmane. Questo è, purtroppo, il quadro realistico della situazione.
E, oggi, che le immagini e gli appelli contro la brutale repressione hanno fatto, via "Internet", il giro del mondo, qualcosa comincia a muoversi?
Credo che la comunità internazionale ancora non faccia fino in fondo quanto sarebbe necessario per sostenere il popolo birmano nella lotta per affermare nel Paese la libertà e la democrazia. Rispetto a quanto accade in Birmania ci vorrebbe anche un forte movimento di protesta da parte dell’opinione pubblica, nel mondo e in Italia. Però, per parlare del nostro Paese, ho quasi l’impressione che nelle situazioni in cui non appaiono con evidenza responsabilità degli Usa, i movimenti che manifestano per la pace e per i diritti umani tendano a "raffreddare" il loro impegno. Questo è un vecchio "vizio" che limita molto, a mio parere, la loro credibilità, nonché la loro stessa capacità d’intervento e di lotta.
C’è ora all’orizzonte la proposta di nuove misure punitive contro la Birmania.
Si tratta di un nuovo "pacchetto" di sanzioni che dovranno essere esaminate alle Nazioni Unite. Il governo italiano le appoggerà con grande convinzione. Bisognerà però vedere se Russia o Cina le accetteranno o se, invece, ricorreranno al loro potere di "veto".