TESTIMONIANZE
Tanti
sono i modi di "fare Missione".
E tante le strade che i "Missionari del Pime" hanno percorso.
Questi sei personaggi, "emblematici" nella loro
"diversità",
hanno trovato e seguito la propria.
Ma innumerevoli ne restano da scoprire.
A cura
della Redazione
("Missionari del Pime", Ottobre 2008)
Le "variabili" sono
state, e sono, tante nella vita di un "Istituto Missionario" quale è
il "Pime",
semplicemente perché sono tante nella vita degli uomini. E a questa regola
generale, il "Pime", come del resto la Chiesa, non si può sottrarre.
Perché la Vita ha bisogno, per essere se stessa, di libertà e di creatività.
Il mondo, infatti, non ha bisogno di "replicanti", ma di uomini e
donne che siano se stessi per il bene di tutti. Eppure c’è qualcosa di
stabile o, meglio, di comune in questo "mondo fluttuante" che
impedisce alla diversità di diventare "anarchia" e alle
"invenzioni" personali di trasformarsi in "arbitrio".
C’è, ci deve essere il desiderio di amare, e in questo, per questo, giocare
tutto se stessi.
Per un "Istituto" come il "Pime", che è fatto di preti e di
"laici" impegnati nella Missione, questo amore ha un’origine e un
fine ben precisi: la "memoria" del Dio di Gesù e l’attesa del
compimento, in lui, di tutte le cose. E una "via": quella dell’uomo.
Tra queste due essenziali "direttrici" ci sta tutto: il passato, il
presente, il futuro; la tradizione e la novità; i luoghi diversi e le diverse
sensibilità. Ci stanno la "dialettica" e la "comunione".
Perché di tutto questo sono fatte la Chiesa e la sua "Testimonianza".
Ci stanno Missionari quasi "dissolti" tra pochissimi cristiani e
molti incontri; ci sta chi, in tanti anni di Missione, ha creato un vero
"impero" della carità, e chi continua a tessere legami di rispetto,
amicizia e collaborazione tra i cristiani e i membri di altre religioni. E
potremmo continuare, spostandoci velocemente di continente in continente, di
paese in paese, dalla campagna alla città, per accorgerci che tutto cambia
perché tutto rimanga se stesso.
C’è, dunque, una "disorientante", preziosissima
"mobilità"; una capacità ammirevole di adattamento dettata dal
mutare delle situazioni, dei tempi e dalla diversità dei protagonisti. E
tuttavia si avverte che la "Radice" buona è sempre stata e sempre
sarà la stessa, quella che il "Vangelo" indica come suprema risorsa
di vita per tutti.
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«Non faccio che stare con loro»
Il Profeta Isaia presenta la
pace con l’immagine dell’agnello che gioca col lupo. Questa immagine mi
aiuta a capire quanto sto vivendo a Touggourt, in pieno deserto d’Algeria,
unico europeo e unico cristiano in mezzo a musulmani… Mi sembra d’essere un
bambino aiutato in tutto: non faccio che stare con loro, lasciarmi insegnare l’Arabo,
salutare tutti, scherzare in mille modi. Sono contenti di vedermi e me lo
dicono. Forse perché il mio stare con loro li aiuta a distrarsi dalle
preoccupazioni, distendersi dalle paure e dal clima di tensione, di
"sospetti", di sfiducia reciproca.
Per quanto riguarda il rapporto con i musulmani, la legge mi proibisce ogni
attività intesa a convertire. La Chiesa in Algeria è stata
"spogliata" di tutto: Chiese, "opere sociali", eccetera. È
lì come "ospite", ma ancora con la sua Missione di "essere
presente" e di "accompagnare" gli Algerini nel loro difficile
cammino.
Padre Silvano Zoccarato - Algeria
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Missionario in "favela"
Ricordate il
"lamento" di Gesù: "Ho compassione di questa gente, come pecore
senza pastore?". Ecco perché, come altri Missionari, ho vissuto per trent’anni
– e continuo a vivere – in zone molto povere o nelle "favelas"
urbane. Ora mi trovo nella sconfinata "periferia" di San Paolo,
regione Sud. Chi sceglie di lavorare in "favela" deve chiedersi: da
che parte sto? Con la popolazione o con il potere? La gente esige chiarezza. Da
parte mia non ho dubbi: mi schiero sempre dalla parte del più debole. Se poi
questi non ha tutte le ragioni, allora, riflettendo insieme, cerchiamo di
arrivare a una decisione giusta.
Ma che cosa va a fare in "favela" un Missionario? Non certo a portare
aiuti; gli abitanti hanno bisogno soprattutto di sapere che qualcuno vuol
camminare con loro. Non si può entrare in una "favela" con l’atteggiamento
di chi crede di avere molto da insegnare a "quei poveretti che non sanno
niente". Neppure si va a costruire grandi "opere", destinate a
crollare appena il Missionario se ne andrà.
Padre Maurilio Maritano - Brasile
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Una "catena" di spiritualità
Nel 1983 tornai nelle Filippine con il desiderio di promuovere un "movimento di dialogo" che partisse da un cammino spirituale basato sulla fede che ognuno professa. Lo chiamai "Silsilah". I "mistici" islamici parlano del "silsilah" ("catena/legame") che unisce a Dio. Ho capito che questo impegno spirituale è molto importante. Ognuno può fare lo stesso cammino partendo dalla sua fede e comunicando la ricchezza della propria esperienza di fede. La sfida del "dialogo" tra le spiritualità ci deve trovare impegnati a scoprire ciò che di bello e buono troviamo anche nelle altre religioni. Guidato da questa riflessione, ogni credente può trovare motivazioni profonde per avviare un "dialogo" sincero con popoli di altre religioni e per fare insieme un cammino che genera "armonia", solidarietà, pace.
Padre Sebastiano D’Ambra - Filippine
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35 anni tra i "Sateré-Maué"
Quando sono venuto fra gli "indios" ho trovato un popolo scoraggiato, "depresso", in diminuzione numerica. Stavano scomparendo, come altri popoli "indigeni". Ho cominciato a visitare sistematicamente i "villaggetti" dispersi, portando qualche aiuto (medicinali, materiale per le "scuolette", vestiti); non solo i villaggi, ma le singole case, anche quelle più isolate. Questo è il segreto che mi ha permesso di farmi accettare da tutti. Un altro segreto è che ho rispettato i loro "ritmi", non mi sono mai imposto. Un grande "capo", dopo alcuni anni, mi ha detto: «Padre, adesso sappiamo che tu ci vuoi bene. Non sei venuto da noi per portarci via la terra, ma vuoi aiutarci. Soprattutto ci visiti sempre, vai in tutti i villaggi… E poi hai fiducia in noi, hai pazienza con noi, fai studiare i nostri figli e ci insegni molte cose belle su Dio».
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Sorpresi dalla guerra
Mi trovavo a Bissau da poco più di un anno, quando siamo stati letteralmente sorpresi dalla "guerra civile", scoppiata proprio in città. C’erano in me tanta paura e impotenza: l’idea di diventare un’"eroina" della Missione impallidiva decisamente! Il mio "eroismo" consisteva al massimo nel prendere per mano i bambini e camminare con loro, attenti a non inciampare. Poi ho capito che lì stavo vivendo la Missione, che la mia Missione era proprio "lo stare lì", quasi "gustando" l’occasione di condividere la vita della gente, la loro sorte, senza troppi "ragionamenti" che, in quel momento, non ci erano richiesti. Ho capito che quel modo di "stare" era anche amore per quelle persone, che ancora mi erano estranee eppure tanto vicine.
Suor Marilena Boracchi - Guinea-Bissau
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Perché "laico"?
Nelle settimane precedenti la
"promessa", tante volte mi sono sentito ripetere dagli amici la stessa
"obiezione": "Stai diventando ‘missionario laico’, ma perché
non ti fai ‘Padre’? Hai fatto trenta, fai trentuno!". Oggi, come
allora, rispondo che quando scegliamo di vivere in modo "evangelico"
la nostra vita di tutti i giorni, abbiamo già fatto "trentadue" e
sarà Gesù a rendere straordinario l’"ordinario".
Gesù ci ha detto che lui è la via, ebbene, lui ha vissuto normalmente con la
sua famiglia, ha fatto il falegname e ha annunciato il suo "messaggio"
alla gente "ordinaria", ai semplici, ai sofferenti, ai peccatori. Non
vorrà forse dire che la salvezza e la "santità" passano proprio
attraverso le normali vicende della nostra giornata, senza che le andiamo a
cercare tanto lontano? Quello che è cambiato è il motivo per cui faccio le
cose: non il guadagno o la carriera, ma una "Persona" che è venuta
nel mondo a insegnarci a servire i nostri fratelli. E allora tutto ha un
"sapore" diverso, la vita viene "rivoluzionata"!
Fratel Massimo Cattaneo - Bangladesh