La "catena" di attacchi a Mosul
La difesa dei cristiani
"banco di prova" iracheno
Riccardo
Redaelli
("Avvenire",
10/10/’08)
Dopo l’abbattimento del
"regime" di Saddam
Hussein nel 2003,
non c’è "gruppo etnico", comunità locale, semplice famiglia in Iraq
che non abbia subito le conseguenze di anni di violenze e "anarchia",
e che non abbia una storia drammatica da raccontare. Il miglioramento della
sicurezza, arrivato quasi inaspettatamente nel 2007, ha tuttavia ridato speranze
per un futuro migliore a questa fragile, incompiuta democrazia.
Un miglioramento che purtroppo non si è riflesso, se non solo parzialmente,
sulle comunità cristiane irachene. In questi anni, infatti, i cristiani in Iraq
sono stati oggetto di violenze e minacce che hanno fortemente indebolito la loro
posizione nella società e nei vari settori dello Stato iracheno. A Baghdad
si è assistito a una concentrazione della minoranza cristiana in
"enclave" protette, al fine di limitare gli attacchi
"islamisti" e le violenze a scopo di estorsione di bande criminali
comuni. Una concentrazione che rischia di divenire una
"ghettizzazione" e una "marginalizzazione" per una comunità
che era fra le più integrate del Medio Oriente.
Ancora più tragica la situazione a Mosul
e a Kirkuk,
città "miste" per eccellenza dell’Iraq, che vedono la presenza di
"curdi", arabi "sunniti", "sciiti",
"turkmeni", cristiani delle diverse "confessioni" e altre
piccole comunità locali.
Qui gli attacchi contro la presenza cristiana vanno letti a più livelli. A
livello contingente, sembrano legati alle prossime elezioni provinciali e al
tentativo di cancellare il diritto di rappresentanza delle minoranze "etno-religiose"
attraverso "seggi" ad esse riservati. Dato il carattere
"settario" dei Partiti e delle "alleanze" elettorali – che
riflettono l’appartenenza "etno-religiosa" dei votanti e non la loro
ideologia e il loro orientamento "politico-sociale" – solo "seggi"
riservati consentono alle minoranze di avere una qualche rappresentanza
politica. In questo senso, la minaccia non è rivolta solo contro i cristiani,
ma contro tutte le piccole comunità "minoritarie", come "Shabak" e
"Yazidi".
Ma vi è un altro livello di lettura, che riguarda esplicitamente i cristiani e
il loro "radicamento" sul territorio. Mosul è uno dei simboli di una presenza
cristiana in Oriente che attraversa i millenni, e la sua storia è intimamente
legata alla storia delle sue rigogliose comunità cristiane. Dopo il crollo di
Saddam Hussein, le violenze contro i cristiani di Mosul, gli omicidi, gli
attacchi alle attività produttive, le minacce e le "vessazioni" hanno
spinto molti a fuggire. Molti, ma non tutti: ancora tanti cristiani difendono il
loro diritto a vivere nelle loro case e a frequentare le loro Chiese. Un diritto
inalienabile, ma che non è accettato da chi non tollera la
"pluralità" e la diversità all’interno del "nuovo Iraq".
Un diritto difeso spesso solo a parole dalle nuove forze di sicurezza e da molti
dei nuovi governanti politici, i quali accettano la presenza dei cristiani ma
non ne se ne interessano realmente. Come se la presenza cristiana in Iraq – e
a Mosul in particolare – fosse un "relitto" di un passato che è
destinato a svanire.
Come se i cristiani in Iraq non fossero veramente "Iraq" essi stessi,
e la loro storia non fosse parte inscindibile della "storia
nazionale".
Ora, l’atteggiamento delle autorità e dei politici iracheni verso queste
violenze sarà la "cartina di tornasole" della loro reale volontà di
rafforzare il cammino verso una "democrazia" meno formale e più
reale; e, ancor più, dovrà testimoniare della loro capacità di assicurare un
futuro all’Iraq, come Paese che non sia solo una somma obbligata di
"fazioni" e di identità incapaci di accettarsi. Difendere i cristiani
in Iraq significa allora difendere tutto l’Iraq.