Le radici del
malessere della montagna affondano in pianura.
Parla Fausto De Stefani, "salitore" di 14 "ottomila".
«Le vette
sono specchio di una società malata,
dove la cultura del possesso ha raggiunto persino la natura.
Bisogna fare un passo indietro, tornare alla pura contemplazione».
Da
Udine, Francesco Dal Mas
("Avvenire",
13/8/’08)
«La montagna? È lo specchio di una società malata». Ne è convinto Fausto De Stefani, nato nel 1952 a Mantova, che tra i primi alpinisti ha scalato, senza ossigeno, le 14 montagne più alte della terra; naturalista, tanto da contribuire alla fondazione di "Mountain Wilderness", da tempo impegnato in "progetti umanitari" in Nepal, e alla ricerca – come lui stesso testimonia – della fede, «nella speranza di trovarla quanto prima» anche grazie alla «contemplazione attiva» del Creato. «Bisogna fermare la corsa verso la "banalizzazione" della vita e trovare la forza di fare un passo indietro. Ma la generazione di noi adulti non ci riuscirà. Dobbiamo ricominciare dall’educazione dei bambini», osserva De Stefani, che ne incontra 45mila l’anno.
La diagnosi della «montagna malata» che cosa dice?
«Si ripete in quota la mancanza di senso civico di cui è malata la pianura, la città. Lo si vede nei comportamenti, nelle relazioni con gli altri e con gli elementi naturali. Mi è capitato, l’altro giorno, di assistere in una "malga" a una scena che la dice lunga: un escursionista voleva acquistare tutto il formaggio sul banco e il povero "malgaro" cercava di fargli capire che doveva riservarne anche agli altri. Un piccolo episodio che certifica come siamo culturalmente piegati sul possesso di tutto, perfino della natura».
Custodire il Creato non significa, quindi, possederlo?
«Assolutamente no. Significa anzitutto trovare la capacità di stupirsi, di meravigliarsi di ciò che vedono i nostri occhi. Ed è quello che cerco di insegnare alle decine di migliaia di bambini che incontro. Bambini, si badi, delle scuole materne, prima ancora di quelle elementari. Perché solo loro sanno ancora stupirsi, provare delle emozioni davvero innocenti, che poi si portano dietro nel percorso della vita. E oggi neppure la scuola lo insegna più. L’estate in oratorio si concludeva, ai miei tempi, con i campeggi in mezzo alla natura; sono state lezioni di vita mai più dimenticate».
Per provare l’emozione della meraviglia è necessario porsi in contemplazione. Lei riesce a farlo?
«C’è una contemplazione spirituale che invidio a coloro che hanno concluso la loro ricerca religiosa, perché finalmente hanno incontrato le certezze che anch’io vorrei trovare. E un giorno senz’altro troverò. La mia è una contemplazione "laica". Che cosa vuol dire? L’esperienza di domenica scorsa: sono salito sul Monte Baldo, ho goduto della bellezza del Creato facendo alcune cose alpinistiche, anche se non impegnative, e sono tornato a casa riscontrando di essere un altro».
Si tratta di una contemplazione passiva, oppure questo è il presupposto per contribuire, con l’impegno personale, a migliorare la creazione, a cominciare dalle condizioni di vita del montanaro, talvolta non dignitose?
«Guai se usiamo la montagna per portare lassù le nostre "frustrazioni" o per liberarci dello "stress" accumulato. In altre parole, è riduttivo salire in montagna esclusivamente per la vetta o per raggiungere il tal rifugio, magari per finire a tavola. Le terre alte debbono significare emozione, natura, impegno sociale per chi ci abita o chi vi opera, riscoperta dei valori culturali o ambientali, anche religiosi per chi ci crede. La boccata d’aria pura, motivo di tante escursioni, non può prescindere dalla riflessione su come garantire questa condizione ambientale. In conclusione, direi che si va in quota – almeno questa è la mia esperienza – per ritrovare l’armonia: tra noi e il Creato e, ovviamente, con il Creatore, per chi ci crede».
La montagna, quindi, come "icona" della solidarietà?
«Certo che sì. Anzitutto nei confronti dei "malgari", aiutandoli a vivere dei loro prodotti, e quindi pagandoli di più. O, ancora, intervenendo con la propria coscienza critica là dove riscontriamo degli sprechi, per esempio nella costruzione di impianti di risalita a mille metri, quando sappiamo che la neve ormai arriva a duemila. Bisogna essere solidali contro l’aggressione all’ambiente».
Quello cui stiamo assistendo è una montagna da consumare…
«Sì, montagna da consumare, non da vivere. Montagna da "commercializzare", insomma da "banalizzare"».
È quanto sta capitando anche con le grandi spedizioni, per esempio sull’Himalaya...
«Purtroppo sì. Ed è per
questo che ho auspicato, nel corso delle recenti polemiche sulla corsa alle cime
himalayane, di fare tutti un passo indietro. Ma nessuno lo vuol fare. Non vuol
fare neppure un attimo di riflessione. E questo perché sono venuti meno i
valori fondanti: l’essere anziché l’avere, ad esempio. Oggi conta di più l’apparire.
Di fronte ai "media", nessuno è disposto a fermarsi.
L’errore più grande compiuto dall’alpinismo è stato quello di
"mitizzare" la figura dello scalatore come "super-uomo". E a
me i "super-uomini" spaventano. Non mi piace il vocabolario che usa
parole come conquista, impresa, eroe.
Oggi la "grande impresa" è di chi con 1200 euro al mese garantisce la
sopravvivenza della famiglia e riesce perfino a mandare all’Università il
figlio».
Bisogna dar luogo, quindi, a una nuova cultura?
«Dobbiamo fare "contro-cultura". Ce lo siamo detti tra "Mountain Wilderness", il "Cai", la "Sat", le altre "organizzazioni". Oggi stiamo portando in montagna le nostre cattive abitudini, i cattivi atteggiamenti. Dobbiamo ricominciare da capo con l’educazione. L’educazione, appunto, al senso civico. In questo senso affermo che le radici delle montagne sono in pianura».