Lo
"scrittore-alpinista" Mauro Corona:
«Troppo "business" e turismo "mordi e fuggi", incapaci di
contemplare».
«Ci vuole una
"politica della speranza" per chi abita nelle vallate,
che hanno bisogno di "custodi" e non di "predatori"».
«La tragedia del Bianco? Mancano le parole».
Francesco
Dal Mas
("Avvenire",
26/7/’08)
«Vogliamo essere
saggi in un momento di "crisi petrolifera" (e non solo) come questo?
Riscopriamo la lentezza. A cominciare dalla
montagna. Anziché pretendere di
usare dappertutto la macchina, proviamo ad andare a piedi».
Mauro Corona,
scrittore, alpinista, scultore, in macchina si fa accompagnare. A piedi, invece,
è lui ad accompagnare gli altri.
La lentezza è solo "non movimento"?
«No, è uno stile di vita. Che, attenzione, non ha nulla a che vedere con i "fannulloni" del Ministro Brunetta. La lentezza, ad esempio, è rinunciare all’elicottero, sempre più diffuso anche sulle terre alte».
L’alpinista Fausto De Stefani ne ha criticato l’uso anche per recuperare Walter Nones e Simon Kehrer sul Nanga Parbat…
«L’etica della montagna, in effetti, non lo prevede, perché si sale a proprio rischio e pericolo. Questo, tuttavia, non vuol dire abbandonare al proprio destino chi si trova in difficoltà estrema. Certo è che oggi troppe "imprese alpinistiche" rispondono ad un unico criterio, il "business". E il "business" ti chiede, anzi ti obbliga se vuoi emergere, ad emergere: con ciò l’assurdo, il singolare, ciò che è l’opposto della lentezza. La "concatenazione", ad esempio, di dieci arrampicate in un solo giorno».
Oppure farsi una "direttissima" con il "Doy Tooling"...
«Il "Doy Tooling"?».
Non ci dica che non lo conosce! L’ultima moda dell’alpinismo, con le "piccozze" alle mani e le scarpe attrezzate di "ramponi"…
«L’"alpinista
ragno"? No, non fa per me. L’alta velocità è arrivata anche in
montagna, mentre quassù bisognerebbe praticare la bassa velocità. Non si può
fare il "Duranno" in una mattinata per essere in ufficio a Pordenone
alle 16, avendo un impegno in agenda. I vecchi alpinisti ci mettevano quattro
giorni, prima si acclimatavano, prendevano contatto con la gente del posto. Oggi
non ci sono più relazioni nelle nostre valli. È evidente che se al semaforo ti
azzanni sul "clacson" perché l’automobilista che sta davanti perde
dieci secondi, sul sentiero di montagna non ti fermi certo a contemplare, magari
a segnarti su un blocco di appunti le sensazioni che provi, oppure solo ciò che
vedi, o ancora a leggerti una poesia del libro che si sei portati appresso.
Cammini, si dice, per bruciare le "tossine". No, bruci tutto te
stesso».
Camminare che cosa significa?
«Fare fatica».
Camminare non vuol dire rilassarsi?
«Macché. Camminando la fatica fa reagire il cervello. Infatti, per annientare la fatica cominci a pensare, quindi ti vengono fuori delle idee, delle intuizioni, a volte strepitose. Alcuni hanno bisogno di "alcool", io ho bisogno di fatica. Non potrei vivere senza fatica».
Lei scrive camminando?
«Ho un "notes", in tasca…».
Non sarebbe più comodo un registratore?
«È poco lento. Quando mi capita un pensiero, mi fermo e scrivo».
Con la matita o la biro? La matita è più lenta…
«Preferisco una penna a china, perché quell’inchiostro, oltre che lento, è anche "stagno"».
Per la verità la sua produzione è tutt’altro che lenta?
«Non scrivo a "macchinetta". È da anni che coltivo appunti. Ad ottobre uscirà "La storia di neve", un romanzo di 850 pagine. È il seguito de "L’ombra e il bastone". È la storia di una bambina che non poteva amare, lei era venuta sulla terra ad aiutare la povera gente facendo qualche miracolo. Lei non conosceva l’amore, ma quando l’ha conosciuto si è sciolta e come la neve è diventata acqua».
Perché storie, seppur romanzate, sempre così tristi, problematiche, "tenebrose"?
«Da mia mamma, da mio nonno, da mia nonna, dai vecchi del paese ho sempre sentito raccontare il male. Ma è dal male che nasce la speranza. I miei libri lo testimoniano».
Provi a dare un nome alla speranza per una montagna che si consuma...
«La speranza vuol dire
riscoprire la "lentezza", ovvero la saggezza.
Accontentarsi del sufficiente per una vita dignitosa. Non sfruttare questo pezzo
di "creato" così bello.
Anzi, custodirlo nella vera accezione evangelica. Non vendere le case o gli
alberghi, nelle più rinomate città alpine, per far posto alle "seconde
case" dei turisti, per cui tanti giovani montanari sono costretti a cercare
alloggio lontano dalle loro valli. Speranza vuol dire non costruire altri
impianti di risalita, "sfalciare" l’erba, riportare le mucche in
"malga", riaprire le case chiuse da decenni in paesi periferici come
il mio, Erto.
Speranza vuol dire, insomma, ripopolare la montagna».
Un bel dire. Se non ci sono servizi, se le scuole, gli ambulatori, le poste chiudono…
«Frequentare le "terre alte", da turisti, presuppone sensibilità e impegno anche in quest’ottica. Invece che cosa accade? Il Sindaco di Asiago è costretto a fare un’ordinanza per vietare l’uso dei "fuoristrada" in centro città. Ma vorrei continuare a "declinare" la speranza. Bisogna impedire che si "privatizzi" l’acqua, che si venda la ghiaia dei fiumi, che in nome dell’emergenza (ma quale emergenza?) si sottraggano alla montagna le poche risorse di cui ancora dispone. La lentezza, di cui parlavo, è anche uno stile di governo, oltre che di presenza, sulle "terre alte". Una presenza ed un governo che non siano "predatori" nei confronti del "creato". Ma, appunto, "custodi"».
Anche la "tragedia" del Monte Bianco, in cui un padre e i suoi tre figli hanno perso la vita davanti agli occhi della madre, può essere letta secondo questo criterio?
«In casi come questi le parole vengono fuori dopo che ci siamo lasciati stringere, direi quasi "pungere" il cuore dalle emozioni che scavano dentro; solo dopo aver pagato questo prezzo ci sentiamo come purificati e quindi capaci di parlare. Penso alle vittime e a chi è rimasto in vita. Anche quella donna credo che in un primo momento sia rimasta ferma, muta, incredula, poi sia stata invasa dal dolore; dopo inizierà anche per lei la faticosa ricerca di un senso e potrà parlarne. Ancora una volta la montagna ci insegna ad ascoltarci, quindi a prendere le giuste misure ed infine a dire le parole vere».