I militari birmani e il mondo

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Monaci birmani, nell'acqua alta lasciata dal ciclone...

Gerolamo Fazzini
("Avvenire", 7/5/’08)

«Portare gli aiuti alle popolazioni "sinistrate" costituirà una grande "sfida"». Il "portavoce" dell’"Onu" a Bangkok, Richard Horsey, allude alle difficoltà "logistiche" che incontreranno i soccorritori per raggiungere il "delta" del fiume Irrawaddy, tutta paludi e risaie, l’area più devastata dal ciclone abbattutosi sul Myanmar. Ma lui (e i rappresentanti della "comunità internazionale" con lui) sanno bene che portare aiuto alle vittime di "Nargis" sarà un’autentica sfida anche – anzi: soprattutto – dal punto di vista politico.
Mentre il bilancio della "sciagura" si aggrava di ora in ora (si parla di oltre 27mila morti, 40mila dispersi e due milioni di "senza tetto"), ancora non è chiara la posizione della "giunta militare" che regge l’ex
Birmania. Accetterà le offerte di "aiuto internazionale" per far fronte all’emergenza? Permetterà ai funzionari delle varie "agenzie" delle "Nazioni Unite", normalmente "dispiegate" in questi casi, di operare tempestivamente e con il necessario grado di libertà? Ancora: che spazio verrà dato (se verrà concesso) alle "organizzazioni non governative" che in queste ore stanno dando la propria disponibilità ad intervenire a fianco della popolazione, piegata da una "sciagura" che non ha paragoni recenti in Asia se non col terribile ciclone che si abbatté sul Bangladesh nel 1991?
A differenza di quanto accadde nel 2004 in occasione dello
"Tsunami" (allora le autorità "minimizzarono" i danni e resero difficile alle "agenzie di soccorso" l’accesso ai luoghi colpiti), stavolta i militari si sono dimostrati "possibilisti" almeno quanto agli aiuti di "marca" "Onu". Le squadre di esperti e aiuti dall’estero saranno accolti con favore, ma «dovranno negoziare» con il regime il loro ingresso in territorio birmano. Sta di fatto che gli operatori internazionali sono ancora in attesa del "visto". E ciò, in un contesto di emergenza, in cui il "fattore-tempo" è decisivo, la dice lunga sul comportamento perlomeno "ambiguo" della "giunta".
I militari si trovano stretti tra due "fuochi": da un lato non hanno mezzi e tecnologie in grado di "sopperire" alle "ingentissime" richieste di aiuto; dall’altro puntano a conservare "gelosamente" il controllo del territorio, specie in un momento politico delicato come questo. Dopo le proteste popolari dei mesi scorsi e la "ferrea" repressione scatenata per placarle, hanno indetto per il 10 maggio un "referendum" sulla "Costituzione", che l’opposizione democratica e gli attivisti per i "diritti umani" giudicano nient’altro che un’abile mossa per conservare il potere. Nell’ex capitale
Yangoon e nel "delta" dell’Irrawaddy, le zone più colpite dal ciclone, le autorità politiche hanno già deciso che la consultazione popolare si terrà lo stesso, ma tra due settimane. Logico quindi che le «interferenze esterne» siano viste con sospetto, da un "regime dittatoriale" come quello che tiene in pugno l’ex Birmania. Un’agenzia legata alla "dissidenza" residente all’estero – rilanciata da "Asia News" riferisce di una "circolare" segreta in cui le autorità mettono in stato di massima "allerta" le agenzie di sicurezza perché aumentino i controlli sulle "organizzazioni internazionali" presenti nel Paese.
Il "regime", però, sa che non potrà esasperare ulteriormente una situazione già abbondantemente critica. Nel "mirino" delle critiche perché accusato di non aver avvertito in tempo la popolazione del pericolo in arrivo, se ora dovesse continuare a ostacolare gli aiuti, fino a limitarne l’efficacia, vedrebbe salire alle "stelle" l’ira della popolazione locale. Ma provocherebbe altresì una reazione internazionale di "sdegno" e "riprovazione" a dir poco imbarazzante.
Vero è che in questi anni ai militari del Myanmar poco o nulla è importato della loro immagine presso la "comunità internazionale". La speranza è che stavolta – in presenza di una "sciagura" di proporzioni così vaste – prevalga, se non l’amore per il proprio popolo, almeno il "buon senso".