La
"furia" della natura ha distrutto i villaggi e reso
"improduttivi" i i terreni.
C’è già chi teme l’"avidità" dei "generali", pronti a
impadronirsi degli aiuti.
Da Mae
Sot (confine birmano), Mauro Mauri
("Avvenire",
8/5/’08)
Mae Sot
è nel Nord Ovest della Thailandia,
a pochi chilometri dal confine col Myanmar:
Yangon e il "martoriato" "delta" del fiume Irrawaddy
distano poche ore di bus. Questa è la terra dei "Karen",
e la preoccupazione per quanto è successo al di là del «muro invisibile» è
"palpabile": quasi tutti nelle zone devastate dal passaggio di
"Nargis" hanno amici e parenti, con i quali permane l’impossibilità
di mettersi in contatto.
Yangon
è tuttora priva di energia elettrica, con la "telefonia
fissa" completamente fuori uso, però con tantissima pazienza tramite il
"cellulare" a volte si riesce a contattare chi abita nell’ex
capitale birmana. "Nargis"
si è abbattuto su una zona completamente piana, dunque priva di qualsiasi
"asperità montuosa", che avrebbe potuto attenuarne il devastante
"impatto". «Il ciclone non poteva finire sulla nuova capitale, su
Naypyndaw, sulle teste dei "generali" dell’esercito», impreca un
giovane che aggiunge: «Sono loro la causa di tutte le nostre sofferenze: le
"stazioni meteorologiche internazionali" avevano previsto l’evento
con 48 ore di anticipo, ma nessuno si è mosso per "allertare" la
popolazione».
Ci sono persone che hanno perso il poco che avevano, restando letteralmente con
i soli vestiti indossati nel momento in cui la forza "devastatrice"
della natura si è abbattuta sulle loro "precarie" abitazioni, capanne
di legno, paglia intrecciata e "bambù" tenuti assieme da filo di
ferro e qualche chiodo.
Anche quasi tutti i "monasteri buddhisti", per tradizione realizzati
in legno, sono andati distrutti, mentre si sono salvate le "pagode",
costruite in "laterizi", che però non hanno spazi per accogliere gli
"sfollati".
Quasi completamente intatte le moschee, costruite con tetto
"calpestabile", in solido "calcestruzzo", tramite
finanziamenti provenienti dai Paesi arabi. Ingenti i danni alle Chiese,
principalmente a campanili e tetti. Disastrose le previsioni per l’immediato
futuro della popolazione, destinata a sofferenze "inimmaginabili" se
non arriveranno aiuti da parte della "comunità internazionale".
Inoltre c’è un grosso e concreto problema: da più parti si teme che beni e
fondi anziché ai bisognosi finiscano nelle "avide" mani degli uomini
del "regime".
Ora il Myamnar è nella stagione calda, spesso di giorno le temperature
sorpassano i quaranta gradi, mentre tra un paio di mesi arriverà la stagione
delle "piogge monsoniche". Tra i sopravvissuti c’è gente che, oltre
ad aver perso l’abitazione, è rimasta priva dell’unica fonte di
"sostentamento", come i pescatori.
Nella "piana" di fronte alla "Baia del Bengala" i pochi
contadini sopravvissuti si trovano senza casa, senza bestiame e con i terreni
che nei prossimi anni non produrranno nulla, in conseguenza dell’elevato
contenuto "salino" depositato sul suolo dall’acqua del mare.
A settembre dell’anno scorso la popolazione del Myanmar scese in piazza per
chiedere democrazia e libertà, mentre ora si accontenta di una ciotola di riso
e di avere un tetto sopra la testa: la mano viene tesa ai rappresentanti della
"comunità internazionale", visto che gli esponenti del
"regime" la tendono solo per "arraffare".