GUINEA BISSAU

RITAGLI   Un Paese che vuole rialzare la testa   EMERGENZA GUINEA BISSAU

P. Piero Gheddo
("Mondo e Missione", Giugno-Luglio 2006)

Nel dicembre scorso sono stato in Guinea Bissau per la terza volta. Dopo le visite del 1987 e 1997, ho avuto l’impressione di vedere un Paese che sta peggiorando, come dicono coloro che ci vivono da molti anni. Specie se confronto la situazione della Guinea con quella di Paesi vicini che ho visto nel corso del medesimo viaggio. Non mancano segni di speranza, ma la realtà dei fatti dice che negli ultimi vent’anni il livello di vita è decaduto. Ho visto ancora una volta come in Africa (e non solo!) la guerra e la dittatura sono i peggiori flagelli. Senegal e Mali sono Paesi con una situazione molto migliore della Guinea Bissau, però hanno avuto un passaggio graduale e pacifico dal colonialismo all’indipendenza, acquistando a poco a poco, con l’educazione e la formazione delle persone, la capacità di garantire stabilità e un minimo di sviluppo.
La Guinea Bissau ha vissuto 12 anni di guerra per giungere a un’indipendenza repentina nel 1974. Non c’è stata una graduale formazione all’autonomia e la lunga «guerra di liberazione» ha fatto trionfare le forze più violente ed estremiste. Dopo il 1974 il Paese ha conosciuto vent’anni di dittatura del Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde (Paigc), sostenuto da Unione sovietica, Cuba e Germania dell’Est. Infine, la breve guerra civile del 1998 e 1999 ha distrutto quel poco che c’era di industrie moderne e ha quasi estinto nel popolo la fiducia e la speranza. Dopo più di trent’anni dall’indipendenza, la Guinea ancora non si è stabilizzata. Anzi, uscita con la guerra dal colonialismo, oggi si misura con i nuovi colonizzatori del Paese: i francesi che vogliono dominare in Africa occidentale, e i cinesi, certamente non migliori dei portoghesi.

In Guinea Bissau molte cose sono peggiorate rispetto al recente passato. Nell’anno scolastico iniziato nell’ottobre scorso, le scuole pubbliche hanno cominciato a funzionare solo una settimana prima di Natale: gli insegnanti erano in sciopero perché non ricevevano lo stipendio da otto mesi. La capitale Bissau pullula di scuole private di scarso valore, le uniche che funzionano bene sono quelle cattoliche, nelle quali infatti tutti vorrebbero poter entrare. Immagine e simbolo del Paese è la seconda città, Bafatà, di circa 18 mila abitanti; nel 1997 una cittadina viva e dinamica anche economicamente, oggi abbandonata da portoghesi e libanesi (che assicuravano piccole industrie e commerci), saccheggiata, senza attività economiche moderne.
Padre Mario Faccioli, da 49 anni in Guinea Bissau, mi dice: «Quando visiti i villaggi o la stessa periferia di Bissau (350 mila abitanti), vedi che mancano acqua pulita, cibo, luce elettrica, servizi igienici in casa, scuola, sicurezza, assistenza sanitaria, lavoro stipendiato. La gente non ha quasi niente. Manca lo Stato. Il problema di tutti è sopravvivere. Non ci può essere sviluppo finché non cambia il tipo di mentalità egualitarista del passato, quando tutti vivevano allo stesso livello nel villaggio, immersi nella medesima condizione di miseria. Oggi, anche chi ha un lavoro stipendiato o ha studiato all’estero e poi ritorna, fatica a risparmiare qualche soldo a causa delle richieste della "famiglia allargata". Gli studenti che i missionari hanno mandato in Italia a studiare e ritornano con una professione, potrebbero guadagnare e risparmiare: ma sono ripresi nella mentalità e nelle dinamiche tribali che impediscono al singolo di emergere. È sì una forma di solidarietà, ma non è la solidarietà gratuita che immaginiamo noi».
La società guineana vive il travaglio della modernità: la moralità tradizionale si è dissolta, conservando gli elementi deteriori della tradizione, e oggi assume gli aspetti negativi della civiltà occidentale, conosciuta attraverso i media (tivù e cinema). «La guerra per l’indipendenza - continua padre Faccioli - ha portato un autentico disorientamento etico nei villaggi. Si sono abbandonate le risaie; per i giovani l’indipendenza dal colonialismo, ottenuta con la violenza, è stata intesa anche come indipendenza dalla tradizione. L’idea di essere liberi li ha sciolti anche dai freni della moralità. Gli anziani vengono ancora chiamati "uomini grandi" e meritano rispetto, ma appena si può ci si libera della loro tutela. Anche la corruzione nello Stato e nei servizi pubblici ha questa radice e credo che oggi sia uno dei peggiori flagelli della Guinea».
Girare per la capitale Bissau dopo il tramonto significa aggirarsi per una città immersa nel buio. C’è un solo generatore che dà luce alla presidenza, ai militari e a qualche ufficio particolare, ma anche gli ospedali di notte non fanno più nulla, nemmeno operazioni perché i medici temono di rimanere al buio. I portoghesi e i cinesi hanno regalato generatori potenti per la capitale, ma chi paga il carburante? Il Paese produce poco, pochissimo; il bilancio dello Stato è finanziato dall’estero per oltre il 50 per cento e gli aiuti sono in buona parte ingoiati dalla corruzione. Manca il senso del bene pubblico, dello Stato».
Afro-pessimismo? No, è la cruda realtà. Anche se, come ripeto, non mancano segni di speranza di cui dirò più avanti. Ma occorre prendere coscienza della realtà, per capire e poter aiutare: non si può far credere che tutto e sempre sia colpa dell’Occidente.
Un volontario italiano, Oscar Bosisio, in Guinea da 15 anni e impegnato nel campo della sanità, racconta: «In Guinea, gli analfabeti sono circa il 60 per cento, i bambini che vanno a scuola il 53 per cento. I medici iscritti all’Ordine e riconosciuti dal governo sono 5 stranieri e 102 locali attivi (altri 63 vivono all’estero). La Guinea ha circa un medico ogni 12 mila persone (in Italia uno ogni 330); molto spesso quindi i malati sono lontani dal medico e non hanno alcuna possibilità di raggiungerlo. Poi c’è un altro problema: anche se fresco di studi in Europa, il medico in Guinea non dispone di strumenti tecnici né di collaboratori alla sua altezza. Non ha riviste scientifiche e in pochi anni non è più in grado di aggiornarsi né sulle tecniche né sui medicinali. Ci sono medici di vent’anni fa che sono invecchiati anzitempo, usano farmaci che non esistono più, tecniche superate, ecc.».

Purtroppo questo vale in tutti i campi. «Un insegnante di sessant’anni ha studiato al tempo dei portoghesi. Una volta partiti gli ex colonizzatori, sono quasi scomparsi i libri scolastici. Oggi il materiale didattico scarseggia. L’insegnante si vede costretto a insegnare senza libri, scrive sulla lavagna e invita gli alunni a copiare. I nostri insegnanti non sono aggiornati, a meno che non abbiano studiato recentemente in Europa».
«Perché dopo l’indipendenza - si chiede Bosisio - è decaduto l’insegnamento, sono peggiorate la sanità, le strade, la presenza dello Stato, la moralità pubblica? Difficile rispondere. Quando sono venuto qui nel 1991, mi ero fatto una certa idea, dopo dieci anni l’avevo cambiata, adesso dopo 15 anni non so più cosa dire. I problemi sono così complessi che è difficile dare ricette e soluzioni, troppi i fattori che intervengono. Credo che uno degli elementi fondamentali sia il fatto che la grandissima maggioranza della popolazione ha il problema essenziale della sopravvivenza. Quando devi lottare giorno per giorno per assicurare alla tua famiglia un piatto di riso, tutto il resto diventa relativo. Capita così che un insegnante (non pagato o pagato pochissimo) un giorno insegna qualcosa ai suoi alunni e il giorno dopo li manda nei suoi campi a lavorare per avere qualcosa da mangiare».
Padre Marco Pifferi, superiore locale del Pime, è in Guinea dal 1989. Dice: «Fra i giovani incomincia a crescere la coscienza che sono loro i protagonisti dello sviluppo del Paese: discutono, si fanno sentire, protestano, non hanno più paura del dittatore o del partito unico, che non ci sono più, almeno ufficialmente. Questo avviene nella capitale. Il resto del Paese, specie nei villaggi, cammina con un ritmo molto più lento. Questa coscienza nuova è stata creata da molti fattori, soprattutto dalle due università di Bissau, la Amilcar Cabral, statale, e la Colina de Boé, privata. Vi si insegna diritto, medicina, giornalismo: le loro lauree sono riconosciute in Portogallo. Lì circolano idee e stimoli nuovi». Purtroppo, aggiunge il missionario, «più in generale riscontriamo una tendenza ad adagiarsi nella situazione di povertà in cui il Paese è precipitato. La miseria è aumentata, anche a causa dell’impunità assoluta di cui godono i capi. Chi viene ad investire capitali in questo Paese? I pochi ricchi del posto esportano i loro capitali, c’è scarsa iniziativa privata, le poche industrie che c’erano non ci sono più: tutto è importato dall’estero. Il Paese rimane povero, anzi va indietro».

Visitando le regioni rurali, chi mi accompagna mi fa notare quanti terreni una volta coltivati a risaia siano oggi abbandonati. In passato, il Sud - ai confini con la Guinea Conakry (la regione di Catiò, Cacine, Bedanda) - era il granaio del Paese. Al tempo dei portoghesi, la Guinea esportava molto riso, era una delle ricchezze nazionali; adesso ci sono ancora risaie, ma si calcola che la Guinea produca solo il 10-15 per cento del riso che consuma. Anche qui pesa il fattore-corruzione: l’importazione di riso di pessima qualità a prezzi stracciati (ad esempio da Cina, India e Thailandia) soffoca la produzione locale dei contadini che non traggono alcun vantaggio dalla loro produzione. Quando ci sono momenti di vera fame poi, i governanti lanciano appelli internazionali e i Paesi ricchi donano riso, che loro stessi rivendono.
I contadini producono in gran parte per l’autosussistenza. Il riso, in effetti, costa poco: un sacco da 50 chili al mercato si vende a 13-14 mila franchi Cfa (il salario minimo oggi è di 18 mila Cfa, pari a circa 30 euro). Comprando un sacco di riso (che non basta per una famiglia media per un mese) rimangono poche migliaia di Cfa. E col riso ci vuole un po’ di pesce, d’olio e di sale, mentre la carne è praticamente inaccessibile.
Un’infermiera o un’insegnante, se lavorano da molti anni, possono arrivare anche a 50-60 mila Cfa al mese, un medico non ne prende più di 60-70 mila; a meno che non sia appena tornato dall’Europa con qualche specializzazione, e allora prende anche 80 mila Cfa, che equivalgono a poco più di 100 euro al mese: una miseria! Come può la gente comune sopravvivere? Risposta: «Mangia una volta al giorno un po’ di riso e a volte deve saltare il pasto perché non ha neppure quello. Prima mangia l’"uomo grande", poi gli uomini, le donne; infine, i bambini prendono quel che rimane, sempre che rimanga qualcosa».

Una visita anche rapida in Guinea porta a una evidente conclusione: quel che soprattutto manca qui è la scuola, l’educazione, l’istruzione in tutti i suoi aspetti. Quello guineano è un popolo che vive nel mondo moderno (non mancano, nemmeno qui, i telefonini!), ma con la testa e il cuore ancora nel tempo magico del lontano passato. Un esempio. Oggi tutti si lamentano del presidente Nino, che loro stessi hanno rieletto dopo che già avevano sperimentato per anni l’inefficienza e la corruzione del suo governo. Ma molti l’hanno votato per avere benefici e perché nella campagna elettorale Nino non ha badato a spese con regalie ai capi e ai villaggi. Se chiedete il motivo della vittoria, molti vi risponderanno che Nino ha un iran molto forte, che lo rende ricco e invincibile, e che bisognava votarlo se non si volevano avere guai. Cos’è l’iran? «Lo spirito protettore che lui ha avuto grazie a cerimonie e riti magici, un po’ come nella macumba. Infatti Nino durante la guerra di liberazione è sempre scampato mentre molti altri sono morti. Poi ha vinto su tutti gli altri e ha governato dal 1980, quando è salito al potere con un colpo di Stato, fino al 1998, quando venne defenestrato a sua volta. Rifugiatosi in Portogallo, è tornato in Guinea ed è stato rieletto presidente nel 2005, contrariamente alle previsioni, grazie al suo iran». Per superare situazioni come queste, sulla via verso un’autentica democrazia, non c’è alternativa all’educazione.