DALLA BIRMANIA
Viaggio nel Paese
asiatico,
a sei mesi dalle manifestazioni di protesta contro il regime militare,
soffocate nella violenza.
I morti sarebbero stati circa 160, le persone incarcerate almeno 700.
I religiosi buddhisti hanno dovuto abbandonare i principali centri.
Deportati o rinchiusi, nelle città non si vedono quasi più: effetto della "repressione".
Da
Yangon,
Piergiorgio Pescali
("Avvenire", 2/3/’08)
Alle sei del mattino, quando il
sole non ha ancora iniziato a svelare il nuovo giorno, la corrente elettrica
viene sospesa lasciando che le ultime tenebre della notte avvolgano per qualche
minuto l’intero quartiere di Botataung. È esattamente in questo istante,
puntualissima, che la voce potente e un po’ rauca di una donna, comincia a
lacerare il silenzio. Lei è una semplice lavandaia: passa di casa in casa a
raccogliere i panni sporchi che riconsegnerà la sera stessa dopo averli lavati.
Ma per gli abitanti di questo quartiere di Yangon,
tra Anawratha Road e il fiume Ayerwaddy, lo scorso anno, durante e dopo le
manifestazioni dei monaci, il lungo e sofferto "grido" significava la
fine del "coprifuoco". «In quelle lunghe settimane, lo chiamavamo il
grido della libertà, perché annunciava che la notte era passata e i militari
non erano venuti a prelevarci», racconta uno studente che, dopo aver
partecipato alle marce di protesta, per mesi ha vissuto nel terrore di essere
trasferito in un centro di detenzione. Come molti altri manifestanti, anche
questo giovane è temporaneamente fuggito nel suo villaggio natale, lontano dai
"collaborazionisti" e dalle spie che "serpeggiano" per le
vie delle città. È tornato solo dopo la "normalizzazione", in tempo
per vedere "pullman" pieni di monaci lasciare Yangon o Mandalay. Un
"esodo" forzato che ha stravolto le principali città del Myanmar:
non si può fare a meno di notare la drastica diminuzione, oltre che del turismo
organizzato, dei monaci, che in alcuni quartieri sono addirittura scomparsi. Le
file dei religiosi che chiedono la "questua" si sono assottigliate e
molti monasteri sono rimasti "semivuoti".
Alla "Pagoda Shwedagon", un giovane bonzo afferma che al suo monastero
sono soltanto in sei, rispetto ai cinquanta presenti prima dell’agosto 2007.
Riusciamo a contattare un monaco molto vicino a U Gambira, "leader"
dell’"Alleanza" di tutti i monaci birmani, arrestato in novembre per
aver organizzato le proteste. Dopo molti tentativi andati a vuoto, lo
incontriamo vicino alla "Sule Pagoda": dati alla mano, dice che nelle
carceri birmane sono detenuti 1.900 prigionieri politici, di cui 700 arrestati
durante le manifestazioni del 2007. I morti accertati sarebbero 22, «ma a
questi – dice – si devono molto probabilmente aggiungere 140 monaci di cui
nessuno ha più avuto notizia». In tutto il Paese, i militari avrebbero
"setacciato" 52 monasteri. Un bilancio relativamente non troppo
pesante, ammette il monaco, se paragonato a quello delle proteste del 1988,
quando vennero uccisi tra i 3 e i 5.000 manifestanti. Ma erano altri tempi: oggi
non c’è un "Muro di Berlino" e un’"URSS" che stanno per
cadere. L’attenzione dell’opinione pubblica, anche se per breve tempo, si è
concentrata sul "Sud Est asiatico". «E la Cina
stessa ha consigliato ai militari di non "esagerare" con le
repressioni», rivela un diplomatico straniero.
Pechino e India "strattonano" il Myanmar, cercando ognuno di
avvicinarlo a sé. Se Pechino fa la parte del "leone" aiutando
economicamente Yangon e riducendo l’impatto dell’"embargo",
imposto senza troppa convinzione dall’Occidente, New Delhi rifornisce di armi
le "Forze armate" del generale Than Shwe, impegnate a reprimere le
rivolte etniche. «Il "boicottaggio" verso il Myanmar rischia di
gettare la nazione direttamente nelle braccia di Pechino, accelerando il
processo di integrazione verso la Cina», spiega allarmato Tomohiro Ando,
direttore dell’"Ufficio giapponese per il Commercio estero" di
Yangon. Percorrendo il Paese, appare chiaro come le tre grandi nazioni
confinanti, Cina, India e Thailandia, si siano spartite l’economia della
nazione: il Nord Est e il centro sono "appannaggio" della Cina, il Rakhine e il
Chin, a Ovest, ospitano merci e aziende indiane, mentre i mercati degli Stati
Mon, Kayin e Tanintharyi, nell’estremo Sud Est, sono colmi di prodotti
thailandesi. Il taccuino su cui, esattamente un anno fa, avevamo annotato i
prezzi dei generi alimentari conferma che i prodotti non hanno subito vistosi
aumenti. Un chilo di riso continua a costare tra i 300 e i 1000 kyats (1.200
kyats equivalgono ad un dollaro al cambio del mercato nero) secondo la qualità;
la benzina, il cui "rincaro" era stato il "detonatore" delle
rivolte, da 1.500 kyats al gallone è passata a 2.500 kyats, mentre quella
venduta al "mercato nero" è rimasta stabile a 4.500-5.000 kyats. Le
variazioni più eclatanti riguardano gli abbonamenti ai mezzi di comunicazione:
una scheda "SIM" per un telefonino costa duemila dollari, mentre il
canone della televisione satellitare è "balzato" da sessantamila a un
milione di kyats l’anno. «E i programmi della "Bbc" e della "Cnn"
sono oscurati», riferisce Thet Zin Myint, membro della "Lega nazionale per
la democrazia" ("Lnd"). Sul giornale governativo spesso si
leggono "slogan" propagandistici contro i "mass media"
occidentali.
«La "Bbc" mente, "Voice of America" inganna, "Radio
Free Asia" organizza le ostilità: attenti, non lasciatevi corrompere!».
Ma la "sete" di notizie è enorme: gli "Internet point", che
il governo cerca senza successo di controllare, sono frequentati da giovani che,
grazie all’abilità degli "hacker" locali, riescono ad aggirare la
"censura" ed entrare nei siti formalmente proibiti. È così che si
"carpiscono" informazioni su Aung San Suu Kyi, sul
"boicottaggio", sulle menzogne del regime. E si continua a sperare. Ma
è una speranza che potrebbe anche tradursi in immensa delusione: l’opposizione
birmana è fortemente disunita e le "fazioni", ora che il dialogo tra
il premio "Nobel" per la pace e i militari è avviato, si combattono
all’interno dello stesso "Lnd". Inoltre, il partito di Aung
San Suu Kyi, se è
popolare tra l’etnia "bamar" (i birmani), che rappresenta il 68%
della popolazione, non lo è affatto tra il restante 32%, formato da etnie che
lottano per avere stati propri indipendenti. Lo stesso governo in esilio
("Governo di coalizione nazionale dell’unione birmana", "Gcnub")
ha ben poca influenza sulle mosse interne del "Lnd", i cui dirigenti
considerano il "Gcnub" più come una "banca" atta a raccogliere fondi,
che un’entità politica. «Noi siamo qui a combattere e a rischiare la vita.
Una volta liberi non vogliamo che siano loro a dirci come ci dobbiamo
comportare», dichiara un membro dell’opposizione. «Cosa accadrà quando le
speranze della gente si scontreranno con la realtà di un partito diviso e anche
corrotto?», chiediamo a diversi esponenti di "organizzazioni
internazionali" di stanza nel Myanmar. La risposta è sempre la stessa:
«Senza una presenza significativa delle "Forze armate", la Birmania
rischia di "smembrarsi" e quel che ne resterà di piombare in una
"guerra civile"». E Aung San Suu Kyi? «È un’"icona".
Verrà emarginata perché troppo "pura" e idealista».