I cattolici, minoranza «vigilata»
«La Chiesa lavora a una transizione morbida»
L’arcivescovo
Charles Bo:
«Cerchiamo di educare la società al cambiamento.
Il passaggio può essere traumatico».
Da
Yangon, Piergiorgio Pescali
("Avvenire",
2/3/’08)
Padre Albert ha studiato
due anni in Italia. A Pathein, la principale città della regione del delta dell’Ayerwaddy,
ci accoglie mentre aspettiamo di incontrare l’arcivescovo di Yangon,
monsignor Charles
Bo. Albert,
giovane e estroverso, ricorda ancora con entusiasmo i "Mondiali" del
2006. Lui stesso, dice, è andato in Germania ad assistere ad un paio di
partite. E mentre ci accompagna a visitare il "Seminario" di Pathein,
si sfoga cantando a squarciagola il "Po popo popopo".
«Qui in Birmania sono più popolari le squadre inglesi: Liverpool, Manchester
United, Arsenal e Chelsea. La televisione trasmette le partite del campionato
inglese, ma non quelle della "Serie A" italiana. "Retaggio" coloniale»,
afferma con un po’ di amarezza. E poi ricomincia: «Po popo popopo...». Non
si ferma neppure di fronte all’arcivescovo, che, ridendo, dice: «In Birmania
siamo tutti un po’ strani». Bisogna esserlo, coraggiosamente
"strani", per vivere in questo Paese, specie se si fa parte di un’entità
religiosa guardata con sospetto dal "regime". «La Chiesa cattolica
– spiega monsignor Bo – è l’unica "organizzazione" in Birmania
che ha un reale e costante contatto con la "comunità internazionale".
Neppure i buddisti possono avere relazioni così vaste e influenti quanto la
Chiesa».
Nonostante questo, la "Conferenza episcopale del Myanmar" all’inizio
delle manifestazioni di protesta ha emesso un "Documento" in cui si
invitavano preti e suore a non partecipare alle contestazioni. Un divieto che
molti, nel Myanmar
come in Occidente, hanno faticato comprendere, ma che monsignor Bo vuole
spiegare: «Nel 1988, quando molti preti e suore erano scesi a fianco dei
manifestanti, abbiamo subito una forte "repressione" da cui abbiamo
fatto fatica a riprenderci. La Chiesa in Myanmar è piccola; non possiamo e non
pretendiamo di cambiare il Paese. Cerchiamo, però, nel nostro piccolo di
educare la società a cambiare». "Rieducare". Questo è quanto
cercano di fare le diocesi di Myanmar, in modo da preparare il popolo a un’eventuale
"transizione". Da 65 anni la nazione è governata da una
"dittatura militare" e un cambiamento radicale potrebbe essere
rischioso per il Paese. Secondo monsignor Bo, «se i militari dovessero cedere
tutto il potere ed uscire di scena, la nazione cadrebbe nel "caos"
più totale. Questo anche Aung
San Suu Kyi
lo capisce, tanto che non ha mai parlato di "estromettere" i militari
da un nuovo governo».
Il problema è che fin quando Than Shwe sarà a capo del "Spdc" ogni
"transizione" sarà impossibile.
Nel frattempo, l’Occidente potrebbe giocare un ruolo fondamentale, ma secondo
l’arcivescovo deve mutare completamente il proprio atteggiamento verso il
Myanmar. «Anziché criticare la Birmania e ordinare l’"embargo", gli
"Usa" e l’Europa dovrebbero cominciare a parlare con la
"giunta" e con la Cina.
La Cina ha un’enorme influenza sui militari. Un dialogo con Pechino porterebbe
di sicuro più frutti di quanto ne possa portare un "blocco economico"
e una "contrapposizione" muro contro muro».