MYANMAR - L’INTERVISTA

RITAGLI    «La rivolta del nostro popolo non finirà»    BIRMANIA

Sein Win, capo del governo "ombra" in esilio:
«La gente è molto meno impaurita di un tempo dai militari,
e vuole poter dire che ha subìto troppo».

Giovani monaci birmani in marcia per la giustizia e la pace in Myanmar...

Da Parigi, Daniele Zappalà
("Avvenire", 1/11/’07)

«La gente è sempre più convinta che qualcosa può cambiare e i monaci l’hanno avvertito da tempo. È proprio ciò che ci incoraggia. Il movimento non finirà». Sein Win scandisce attentamente ogni parola, ma mentre parla del popolo birmano una punta di emozione riaffiora fra gli spigoli delle frasi in inglese. Il primo ministro del governo birmano in esilio, cugino di Aung San Suu Kyi, prosegue in questi giorni la sua "tournée" da una cancelleria europea all’altra ed è stato già ricevuto anche dal presidente francese Sarkozy.

Duecento monaci sono di nuovo scesi in strada a Pakokku. Come occorre interpretare questo gesto?

I monaci avevano fatto delle richieste a cui non sono state date delle risposte. Stanno dunque dicendo che continueranno a chiedere. Nonostante tutte le manifestazioni brutalmente represse, vogliono ancora mostrare in pubblico il loro impegno. Sanno di rappresentare una rivendicazione avvertita da tutta la gente comune. La gente è molto meno impaurita di un tempo dai militari e vuole anch’essa poter dire che ha troppo subìto.

Cosa può dirci più in generale sul ruolo dei monaci nell’attuale fase?

È un ruolo molto importante per via dell’autorità morale che essi ricoprono. Il fatto che ci siano centinaia di monaci che scendono in strada ha conferito una dimensione del tutto speciale a queste ultime manifestazioni rispetto ad altre nel passato.

La giunta militare è accusata di reclutare con la forza dei bambini. Può confermarcelo?

Siamo da tempo molto rattristati da questa tragedia che aggrava ancor più la nostra tragedia. Si tratta di una delle numerose violazioni dei diritti umani nel Myanmar. Sono reclutati e costretti per lunghi anni a trasformarsi in soldati. Si tratta di un problema enorme.

Crede che i prigionieri politici saranno prima o poi rilasciati?

Temo che non saranno rilasciati immediatamente. Siamo consapevoli che dovremo proseguire senza interruzioni la nostra azione di pressione sulla giunta che spera invece in un calo di attenzione da parte della comunità internazionale. La giunta spera anzi che sia già cominciato, come in passato, il conto alla rovescia prima di recuperare il controllo della situazione. Ma siamo convinti che questa volta ci sarà un altro genere di conto alla rovescia.

Che informazioni ha di Aung San Suu Kyi?

Sappiamo che ha incontrato un emissario della giunta ma non quale sia stato il contenuto della loro conversazione. Sappiamo che fisicamente sta bene e che non cederà.

Cosa può fare in questa fase la comunità internazionale?

Mantenere la pressione e poi ancora mantenere la pressione. Ciò significa anche la capacità di rispondere immediatamente. L’inviato Ibrahim Gambari riferirà al "Consiglio di Sicurezza" dell’"Onu" e quest’ultimo dovrà decidere il passo successivo. Questo processo non dovrebbe interrompersi, perché ogni azione rappresenta un forte segnale in direzione della giunta militare.

Occorre rafforzare le sanzioni?

Non abbiamo bisogno solo di sanzioni e di embarghi, ma prima di tutto di un impegno diplomatico duraturo. Non solo verso la giunta, ma anche verso gli altri Paesi della regione. Questo è fondamentale. A mio parere, le sanzioni sono una misura complementare, ma non l’aspetto essenziale. Al contempo, chiediamo un aiuto per le popolazioni. Non occorre dimenticare che ci sono persone che si stanno battendo dall’interno.

E fra chi si batte nel Myanmar, quale sentimento prevale adesso?

La gente vuole un cambiamento rapido e attende un sostegno dagli altri Paesi democratici. Vuole convincersi fino in fondo di non essere più da sola. Vuole credere che più di 200 persone non sono morte per nulla. E che più di 5mila persone non sono state arrestate per nulla.