Il ruolo dei "media" nella crisi Birmana

RITAGLI    I "reporter" stanno facendo    BIRMANIA
la parte che non fa la politica

Andrea Lavazza
("Avvenire", 29/9/’07)

Le sconvolgenti immagini dell’uccisione a Yangon di Kenij Nagai, coraggioso "fotoreporter" giapponese dell’agenzia di stampa "Apf", hanno fatto il giro del mondo in poche ore grazie agli scatti di un collega della "Reuters". Altre fotografie e riprese televisive, trasmesse in questi giorni via "Internet" e telefono cellulare, hanno suscitato prima simpatia per la rivoluzione «rossa» dei monaci birmani e poi sdegno per la brutale repressione operata dal regime militare. Tardivo e vano risulta il tentativo della giunta al potere di scovare i giornalisti stranieri entrati nel Paese con visto turistico (ai rappresentanti dei "mass media" Myanmar da tempo resta vietata) e di tagliare le poche linee di comunicazione rimaste: è quasi impossibile smantellare la rete elettronica che costituisce il "villaggio globale". Il tentativo di mettere i sigilli alle frontiere fisiche diventa inutile se lo scopo è chiudere gli occhi del mondo di fronte alle violenze perpetrate sui propri cittadini, determinati a chiedere libertà e democrazia. Quanto potrà durare lo "spettacolo" dei soldati che sparano sulla folla, quanto a lungo Cina e Russia saranno in grado di bloccare le sanzioni internazionali davanti alle riprese dei manifestanti attaccati con manganelli e fucili? Gli stessi "scricchiolii" interni al gruppo dirigente, con le voci di ufficiali incarcerati perché renitenti agli ordini di fare fuoco contro i "bonzi", non sarebbero estranei alla plateale amplificazione di un "pugno di ferro" ancor più insostenibile quando mostrato a ciclo continuo sulle tivù di mezzo Pianeta. Non ci si può tuttavia illudere che basti la dedizione dei "reporter" e l’intraprendenza dei manifestanti dotati di moderne tecnologie per risolvere la crisi birmana. Perché alla mobilitazione popolare in molti Paesi, innescata proprio dalle drammatiche testimonianze giunte fino a noi, non sta seguendo una altrettanto efficace risposta politica. Incassato il "no" di Pechino e Mosca in "Consiglio di sicurezza Onu", Stati Uniti ed Europa paiono esitanti nell’azione diplomatica. Le condanne verbali sono soltanto un primo, debole passo. A esse devono affiancarsi sanzioni immediate e pressioni decise nei confronti degli influenti "amici" del regime. È la Cina – si dice – ad aver maggiormente da temere per la sollevazione buddhista. Il timore di un’"esportazione" della protesta in Tibet metterebbe in difficoltà i vertici della Repubblica popolare. Ma ci approssimiamo alle Olimpiadi dell’estate 2008: la più grande vetrina sul gigante d’Asia, evento "mediatico" per eccellenza. Si faccia presente che l’evento, se non "illuminato" dall’Occidente, rischia di tramutarsi in un doloroso "boomerang". Non servirebbe nemmeno il "boicottaggio" sportivo, sarebbe sufficiente il "black out" televisivo. Ecco un’arma, come si è già sottolineato su queste colonne, con cui premere sui vertici della Repubblica popolare: smetta di fare scudo alla giunta e la induca a fare qualche concessione. Se non si vuole percorrere questa strada, le cancellerie diano prova di fantasia tattica e trovino altri mezzi per ammorbidire i militari. L’Europa faccia sentire la sua voce, l’Italia sia portavoce di una doverosa battaglia per i diritti umani. La nostra partecipazione all’annuale "Assemblea generale delle Nazioni Unite" ha puntato tutto sulla moratoria della pena di morte, causa nobile ma che sembra destinata, almeno per ora, a non ottenere il necessario consenso. Varare sanzioni economiche unilaterali alla Birmania (sostanzialmente uno "stop" alle importazioni di legname pregiato) non ci costerebbe troppo e darebbe un segnale della volontà di incidere più concretamente sugli scenari internazionali.