DIBATTITO

Anche gli intellettuali scendono in campo
per i diritti umani nel Paese asiatico:
una mobilitazione ancora troppo debole?

RITAGLI    Birmania, l'ora dell'«impegno»    BIRMANIA

Il mondo del pacifismo invitato a maggior partecipazione.
Patriarca: «Una protesta non violenta che ha bisogno di noi occidentali».
Cardini: «Troppa omertà collettiva negli anni scorsi».
Gheddo: «Il fattore religioso determinante contro la dittatura».

Andrea Galli
("Avvenire", 29/9/’07)

"Amnesty Inrernational" che torna a fare il suo mestiere e organizza due "sit-in" a Roma e a Milano per mobilitare l'opinione pubblica. Il consolato italiano di Bali che manda "sms" ai parlamentari per invitarli a partecipare alla protesta internazionale, indossando oggi qualcosa di colore rosso, onorando così il sangue versato nella capitale Yangon. "Mtv" che rispolvera la campagna "mediatica" del 2002 e 2003 per la liberazione del premio "Nobel" per la pace Ang San Suu Kyi. È insomma l'ora della mobilitazione generale per il Myanmar, o Birmania, o Burma, come la Casa Bianca insiste a chiamare il Paese del sud est asiatico, ricordando che il cambio di nome, nel 1989, non ottenne l'approvazione del Parlamento.
Una presa d'atto corale della drammaticità delle manifestazioni (e repressioni) di questi giorni che per
Edoardo Patriarca, già portavoce del "Forum del Terzo Settore", rappresentante autorevole nel pacifismo italiano, ha un retrogusto amaro: «Anche il popolo della pace subisce il condizionamento dei "media", per cui ci si muove quando certe situazioni esplodono, altrimenti si tende a dimenticarle o ad osservarle con distacco». Considerazione che non toglie «il dovere di sostenere proprio adesso una protesta impressionante per vari motivi: per il suo carattere non violento, per la partecipazione in massa della popolazione e per il protagonismo dei monaci buddisti. Segno potente, se mai ce ne fosse bisogno, del ruolo che le religioni giocano all'inizio di questo millennio; segno della loro capacità di esprimere le istanze più profonde di una nazione e di essere un elemento insostituibile di coesione sociale».
Impressionato dagli accadimenti birmani è anche
Franco Cardini, medievalista di rango e osservatore attento della "geopolitica" contemporanea, che però richiama a una certa prudenza nelle valutazioni: «Mi ha colpito l'abnegazione con cui si è mosso il clero buddista, verso cui tra l'altro ho un'antica simpatia, quasi una debolezza, ma ci sono ancora molti elementi poco chiari in questa vicenda, che richiederebbero maggiore attenzione. È abbastanza strana, stando alle consuete dinamiche diplomatiche, una presa di posizione così netta e immediata del governo Usa, dopo un lungo periodo di apparente silenzio o comunque di scarso interesse per quella zona. Un "interventismo" che fa pensare a quello operato dagli stessi Usa, negli ultimi anni, in Asia centrale, sul cui sfondo c'è il confronto con l'asse costituito da Russia, Cina ed eventualmente Iran. Va inoltre ricordato che fino a ieri la Birmania aveva una tradizione di buoni e consolidati rapporti con molti Paesi europei tradizionalmente interessati a quell'area, per esempio la Francia. Per cui queste repentine prese di posizione, questo indignarsi istantaneo e collettivo, dopo un lungo tempo di omertà collettiva all'insegna del "quieta non movere", devono spingere a chiedersi quale può essere l'altra faccia della mobilitazione umanitaria. Giusto, doveroso essere candidi come colombe, ma anche astuti come serpenti. Sono convinto che nei prossimi giorni, dopo le cronache dettate un po' dall'emozione, emergeranno dati che daranno maggior spessore politico ai fatti».
«Colomba», nel senso dell'entusiasmo e dell'ottimismo per quello che sta avvenendo, è senza dubbio
padre Piero Gheddo, decano dei missionari italiani, secondo il quale la sommossa birmana è l'ennesima dimostrazione non della forza, ma della debolezza del regime: «Così come in altri Paesi, vedi il Vietnam, la popolazione è esausta della "cappa dittatoriale". Se potesse la farebbe saltare domattina». E sul perché proprio in quell'angolo del pianeta resistano gli ultimi regimi di matrice comunista, Gheddo invita a ricordare la potente "fascinazione" del maoismo nel '900: «Bisogna tenere conto dell'attrazione enorme che ha esercitato Mao Tse Tung quando ha conquistato il potere tra il '46 e il '48. Gli asiatici, ovviamente non solo in Cina, sentivano di potersi liberare dall'arretratezza, dalla povertà, dalla schiavitù… allora non si vedeva come Mao attaccasse brutalmente la religione, perché appariva solo come un grande guerrigliero. Anche in Africa ci sono stati una quindicina di Paesi diventati comunisti per il fascino di Mao ben più che dell'Unione Sovietica». Oggi quella storia sembra arrivata al "capolinea", con i suoi colpi di coda e la sua nemesi: «La demolizione del regime ateo e comunista sembra venire proprio dalle realtà religiose, in "primis" quella buddista, la più grande forza nel Paese dopo l'esercito, ma anche le altre chiese che sostengono la protesta». Alleanza niente affatto scontata: «Gli attuali rapporti tra buddisti e cristiani sono buoni, ma non è sempre stato così: dal '48 al '62, quando l'etnia birmana, circa il 72% della popolazione, occupò tutti i "gangli" delle istituzioni, ci fu una dura persecuzione delle minoranze, tra cui quelle cristiane. Negli anni '50 un sacerdote diocesano, formato dai missionari del Pime, fu ucciso da un monaco buddista perché stava avendo un enorme successo nel convertire al cattolicesimo le tribù Akka. Qualcuno da tempo vorrebbe iniziare il processo di beatificazione, altri temono di riaprire antichi rancori con i buddisti, che per fortuna oggi sono in gran parte superati».