La nuova (e inutile) capitale di un Paese alla deriva…
BirmaniaI
diritti umani sono calpestati, le minoranze discriminate, l’economia annaspa
nell’incapacità di agganciarsi al treno delle "Tigri asiatiche"...
Eppure la giunta militare, al potere da 45 anni, sperpera immani risorse per
sostituire Rangoon con una città costruita "ad hoc" nella giungla. E
che nessuno vuole.
Stefano
Vecchia
("Avvenire",
24/6/’07)
La Birmania,
ribattezzata Myanmar
nel 1990 e scomparsa così dalle carte geografiche per qualche anno prima che
qualcuno si accorgesse che nessun nuovo Stato era sorto sull'orizzonte
dell'Asia, ha ora una nuova capitale. Che nessuno o quasi conosce, i birmani per
primi, al punto da far dubitare che si tratti di uno scherzo di una giunta che
continua a considerare un Paese grande due volte l'Italia come un cortile in cui
giocare alla guerra contro le minoranze, sperimentare armi cinesi e ogni sorta
di abuso dei diritti umani, tenere da quindici anni agli arresti domiciliari la
sottile ma irremovibile signora
Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace 1991
e anima di una opposizione democratica sfiancata da prigionia, torture, minacce
ed esili.
Se di uno scherzo si tratta, è comunque uno scherzo costoso, sia in termini
monetari per una Birmania/Myanmar che ha il dubbio primato di avere preso
l'"ascensore" in discesa in un'Asia che ormai cavalca "Pil" da primato e
"leadership" in molti settori dell'economia globale, sia in termini di
già scarsa credibilità della sua "leadership".
Naypyidaw ("Rifugio del re", un nome che è un programma come sede di
un regime che si dice ispirato dal socialismo e al bene dei suoi cinquanta
milioni di sudditi) è stata costruita 460 chilometri a nord dell'esotica, calda
e vibrante ma ora declassata Rangoon, sparsa in un'area di un centinaio di
chilometri di giungla appena bonificata, abitata da reggimenti dell'esercito e
da qualche migliaio di funzionari e impiegati governativi costretti alla
migrazione forzata in un posto dove ci sono sì elettricità e acqua a
sufficienza, ma non certo bar, "karaoke", videogiochi e "Internet
cafè", e anche dove acquistare di che vivere quotidianamente e mandare a
scuola i propri figli non è semplice.
Problemi momentanei, certamente. Ma la Birmania ha i suoi ritmi e si corre il
rischio che i generali che attendono in coda il loro turno per il potere mentre
il "Grande Vecchio", il generale Than Shwe, combatte l'unica vera
battaglia della sua vita, quella contro il cancro, siano più veloci di qualche
catena di "minimarket" o di qualche rivenditore di papaie.
Forse anche questa
constatazione ha finora impedito alle ambasciate straniere di mollare gli
ormeggi dalla Rangoon dove avevano acquistato a caro prezzo diritti sui terreni,
edifici e allacciamenti a servizi essenziali. Addirittura la sede diplomatica
statunitense sarà trasferita, come previsto da tempo, ma nella stessa città.
Diciamo che l'offerta di avere una sola ambasciata al prezzo di due (una vera da
costruire nel luogo impronunciabile e una "ombra" già pagata a
Rangoon) non è sembrata un granché.
Anche perché nessuno a livello governativo si è preoccupato di spiegarla,
salvo invitare, dopo due anni di attività edilizia "secretata", la
stampa di mezzo mondo alla parata per la festa delle Forze armate il 27 marzo:
un evento che non ha certo richiamato folle di giornalisti ma che ha confermato
la "bizzarria" del regime birmano.
Mistero sulle ragioni del trasferimento (pagato ancora una volta con il sangue
delle minoranze che ora si trovano come vicino di casa il governo che le
vorrebbe piegate e declassate a vivere in mute riserve, ma anche con il lavoro
forzato dei villaggi e ogni sorta di brutalità sulla popolazione civile): mossa
per centralizzare maggiormente il potere? Posizione di sicurezza rispetto a un
attacco Usa, Ue, Nato o magari "marziano"? Esigenza di rispettare
oracoli e letture astrologiche che, dalla Rivoluzione del 1962 (in realtà un
colpo di Stato con cui la Birmania da poco indipendente cadde nella trappola del
"socialismo birmano" in funzione "anti-occidentale"), influenzano la
vita di questo Paese?
Gli analisti militari ritengono che non esiste alcun sintomo di un attacco
contro la Birmania e che, se anche così fosse, un centro abitato più piccolo e
dedicato quasi unicamente alla gestione del potere e alle caserme sarebbe un
obiettivo aereo assai più facile di una grande città. «Le voci di una
invasione americana sono uno scherzo - taglia corto Aung Zaw, direttore di
"Irawaddy", pubblicazione dell'opposizione in esilio - . Non così la
paranoia del governo». Una lettura simbolica ritiene il recupero di Piynmana,
centro delle Forze armate di Myanmar ai tempi della campagna per l'indipendenza,
nei cui pressi è sorta Naypyidaw, una mossa per "ricompattare" il Paese attorno a
ideali nazionalisti. Come pure per confermare il ruolo di primo piano
dell'Esercito, chiamato a difendere la nuova capitale, rispetto alla Marina, che
aveva un ruolo di primo piano nella protezione di Rangoon, affacciata sulle
acque tra fiume e mare.
Comunque sia, nessuna ambasciata ha finora accettato il trasferimento ed è prevedibile che si arriverà presto a un "ultimatum" del governo. Diciamo che, al di là di molte altre valutazioni, questa vicenda, ha aperto un precedente preoccupante. Se già non fosse bastata la scarsa simpatia di cui si circonda il regime birmano, soggetto a un "boicottaggio" che regolarmente scarica gli effetti negativi sulla popolazione civile senza togliere una galletta ai militari, quello delle ambasciate potrebbe essere un fronte ostico anche per gli induriti veterani birmani, sui cui manuali non esistono indicazioni in proposito e neppure le parole "mediazione" e "moderazione".