Il silenzio della forza

RITAGLI    Non si spenga la luce sulla Birmania    BIRMANIA

Andrea Lavazza
("Avvenire", 3/10/’07)

Non è difficile "tifare" per i monaci birmani indossando, "una tantum", un capo d’abbigliamento rosso o arancione. Ma quando la solidarietà a distanza fallisce, è altrettanto facile dimenticare e ricacciare nell’oblio un intero popolo sottoposto a ferrea dittatura "militar-marxista". Non deve finire così, si dicono le persone di buona volontà. Eppure si rischia proprio questo.
Il mondo può metabolizzare un massacro di innocenti che manifestano pacificamente per la democrazia? Può assistere al tentativo di annientare una componente "etnico- politica" d’un Paese? Può tollerare un genocidio pianificato che prosegue da anni? Sì, è possibile, la sconfortante risposta. Si è metabolizzato il massacro di piazza Tienanmen nel 1989; si è assistito all’uccisione di 800mila persone in Ruanda nel 1994; si tollera il genocidio del Darfur di questi anni. Spegnendo i riflettori, ignorando l’argomento, parlando d’altro. Per la
Birmania – tanto lontana, tanto piccola, in fondo irrilevante – avverrà lo stesso.
Le responsabilità, è ovvio, sono graduate. Il cinismo e l’indifferenza hanno le proprie classifiche. E anche i "media" sono nel novero, chiamati a svolgere il loro ruolo oppure a farsi piccoli complici dell’insensibilità e della "smemoratezza" generali. Tenere alta l’attenzione è il primo dovere, "pungolare" adeguatamente chi sta al livello superiore, il secondo. Non ci muoviamo sul terreno dell’utopia, sappiamo che perfino una martellante campagna di tutti i giornali e le "tv" d’Occidente avrebbe buone probabilità di non essere sufficiente e che dare ampia e continuativa copertura alle vicende del
Myanmar risulta complicato, soprattutto quando mancano notizie, testimonianze, immagini, e gli ascolti rischiano di scendere. Eppure, tutto considerato, lo sforzo va fatto. Per i coraggiosi birmani e per la nostra coscienza di operatori dell’informazione.
Noi cattolici, con le nostre forze, siamo impegnati a non lasciare nel buio la causa della libertà birmana, foss’anche repressa e zittita la mobilitazione popolare in corso. Dopo di che potremo alzare lo sguardo al piano successivo: quello che muove le "leve" del potere politico.
"Unione europea" e Stati Uniti sembrano possedere mezzi inefficaci contro il regime. Da dieci anni la "Ue" ha proibito la vendita di armi, congelato i beni dei generali, tagliato gli aiuti e revocato lo "status" di "partner commerciale" privilegiato. Washington ha bloccato nuovi investimenti e parte delle importazioni. Nulla, però, che abbia smosso i militari, forti dell’appoggio cinese, indiano e russo. Pechino intrattiene i rapporti economici e politici più stretti con la giunta birmana e ha posto il veto a sanzioni Onu; Delhi, proprio nei giorni caldi della protesta di piazza, ha firmato contratti petroliferi con i vertici di Yangon; e Mosca cede armamenti in cambio di forniture energetiche, mettendo in chiaro che non sono ammissibili interferenze negli affari interni dello Stato.
Bisogna, allora, agire sugli amici del regime, trovando una via di pressione capace di convincere la
Cina ad ammorbidire i generali che hanno ordinato di sparare sui manifestanti. Molti invocano un boicottaggio delle "Olimpiadi 2008", la "vetrina mondiale" sulla quale tanto i dirigenti cinesi stanno investendo. Snaturare lo sport e usarlo come strumento politico non si rivela mai una buona idea. Diverso sarebbe minacciare un "black out" informativo totale sull’evento da parte dei "mass media" occidentali, un oscuramento (finanziato dai governi, visti i diritti già pagati) che vanifichi il ritorno di immagine sperato da Pechino e funga anche da "contrappasso" alle censure cui è oggi sottoposta la crisi birmana.
Ogni azione diplomatica più praticabile ed efficace sarà benvenuta, e anche dall’Italia è lecito attendersi un’azione maggiormente decisa e fantasiosa. Comunque vada, la nostra "fiammella" per l’aspirazione alla libertà della Birmania resterà accesa.