La
"leader" dell’"opposizione" al "regime" birmano
attende la "sentenza" in una stanza,
all’interno del "carcere" di Insein. Rischia fino a 5 anni: una
"condanna-pretesto",
per impedirle di partecipare alla prossime "elezioni".
Suu Kyi, la parola alla
"difesa":
«Accuse senza "basi legali"»
Udienza
decisiva al "processo". Lunedì toccherà ai "pubblici
ministeri".
Secondo gli avvocati, le "imputazioni" sono riferite alla
"Costituzione"
abrogata 25 anni fa.
«La "legge" è dalla nostra parte, non sappiamo se lo saranno i
giudici».
Da
Bangkok, Stefano Vecchia
("Avvenire",
25/7/’09)
Ieri, dopo un lungo intervallo,
si è tenuta un’udienza decisiva nel "processo" ad Aung
San Suu Kyi, con la
prevista "arringa" della difesa, mentre è stata posticipata quella,
pure prevista per ieri, dell’accusa.
Una teoria difensiva espressa in 23 pagine, basata su due sole testimonianze
ammesse a favore (contro le 14 dell’accusa), rifinita durante l’incontro
di Giovedì tra il "Premio Nobel" e i suoi avvocati. Di fatto, l’ultimo
tentativo per sventare quella che molti temono sarà una condanna che potrebbe
anche arrivare a cinque anni di carcere.
Lunedì sarà la volta dei "pubblici ministeri", che tenteranno di
convincere la corte che il "personaggio-simbolo" della resistenza
"non-violenta" al "regime" merita un’ulteriore, pesante
pena detentiva per avere incontrato suo malgrado l’americano John William
Yettaw, che aveva raggiunto la sua abitazione, "sigillata" da un folto
servizio di sicurezza, attraversando a nuoto il lago su cui si affaccia la sua
casa.
La 64enne "leader" dell’"opposizione" al "regime"
birmano, che ha
trascorso 14 degli ultimi 20 anni in carcere o agli "arresti
domiciliari", attende la sentenza che dovrebbe arrivare tra pochi giorni
nella piccola residenza per gli ospiti costruita all’interno del complesso
carcerario di Insein, presso la "capitale commerciale" Yangon,
famigerato luogo di detenzione, tortura e sovente di sparizioni di centinaia di
"oppositori". Il processo, iniziato il 18 Maggio e che doveva essere
di breve durata, di fatto si è trascinato per due mesi. A "porte
chiuse", fatta salva la seconda udienza, quando sono stati ammessi esponenti
della stampa estera e delle "rappresentanze diplomatiche" accreditate
a Yangon. Alcuni "diplomatici" hanno in seguito potuto incontrare per
alcune brevi occasioni la "prigioniera".
Alla fine dell’udienza di ieri, Kyi Wi, a capo del "pool difensivo",
si è detto ottimista, ripetendo che le accuse verso la sua assistita sono
quelle contemplate nella "Costituzione" abrogata 25 anni fa e non in
quella ratificata da un controverso "referendum" tra il fango e la
disperazione del "Ciclone
Nargis" nel
Maggio 2008. «Abbiamo la "legge" dalla nostra parte ma non sappiamo
se lo saranno i giudici», ha commentato Kyi Win lasciando il carcere. In
effetti, i difensori non hanno contestato il fatto, in sé
"incontrovertibile", seppure ancora oscuro nelle ragioni, dell’incursione
del cittadino americano, quanto che a questo venga applicata una
"legge" che riguarda la violazione dei termini di carcerazione.
Inoltre, i difensori hanno ancora insistito sull’incapacità di controllo
delle guardie che avrebbero dovuto impedire l’arrivo di Yettaw – personaggio
già segnalato per un simile episodio dello scorso anno, ma a cui era stato
comunque garantito un "visto" d’ingresso pochi giorni prima dalla
sua incursione nella villetta in riva al Lago Inle.
Il Paese e le "diplomazie internazionali" attendono con trepidazione
la fine di un "processo", la cui durata è servita probabilmente al
"regime" per prepararsi a un’eventuale condanna che per molti non
sarebbe che un "pretesto" per impedire ad Aung San Suu Kyi la
partecipazione in alcuna forma alle "elezioni" previste per il
prossimo anno. La nuova "Costituzione", ritagliata sulle esigenze di
una "giunta militare" che intende lasciare spazio a un potere "civile"
ad essa favorevole, con l’unico scopo di rispettare nella forma gli impegni
presi con la "comunità internazionale", impedisce a Suu Kyi, in
quanto "vedova" di un cittadino straniero, di candidarsi, ma la
"fragile" signora resta per l’"opposizione" all’interno
e per quella in "esilio" all’estero il principale riferimento. Per
tutti, il simbolo stesso di un "Paese" che non vuole cedere a "miseria"
e "dittatura".