C’È UN POPOLO CHE CI CHIEDE SOLIDARIETÀ
Serve un "assedio mediatico"
alla fortezza-Myanmar
Gerolamo
Fazzini
("Avvenire",
28/10/’07)
Un pugno allo stomaco, a volte,
può servire. Per riaccendere l’attenzione di "media", ridestare l’opinione
pubblica, far riemergere dal silenzio volti, storie, un popolo.
Le foto dei monaci birmani torturati e uccisi che "Asia
News" ha
diffuso e che questo giornale ieri ha pubblicato, sono state un autentico pugno
allo stomaco. Quei volti di inermi, uomini di preghiera, vittime di una
brutalità così efferata da confinare con l’animalesco, hanno fatto il giro
del mondo, suscitando un senso di raccapriccio e di angoscia, insieme a una
buona dose di polemiche.
C’è chi sostiene che mostrare immagini così crude sia contro il buongusto.
Altri dubitano che possano arrivare a scuotere la giunta militare che stringe il
Paese in una morsa di ferro. Per gli uni il pugno allo stomaco sarebbe
eccessivo, per gli altri inutile. Ma il direttore dell’agenzia del "Pime",
padre Bernardo
Cervellera, ben
cosciente della portata del suo gesto, lo motiva così: «Sono foto terribili.
Ma ci siamo sentiti quasi costretti perché siamo amici di esuli birmani che ci
chiedono di rendere noto a tutto il mondo qual è la loro situazione. Così
abbiamo compiuto un gesto controcorrente rispetto alla giunta che, al contrario,
non diffonde alcuna immagine e notizia su quello che è avvenuto».
"Asia News" va oltre, denunciando il pericolo che i segnali
distensivi diffusi dalle autorità birmane altro non siano che fumo negli occhi.
«Da quando l’inviato Onu è andato in Myanmar
e ha detto che la giunta è possibilista sul dialogo con Aung San Suu Kyi, la
rappresentante delle opposizioni, la Birmania
è scomparsa dai "media"», ha detto padre Cervellera al sito di
"Articolo 21".
Il fatto è che Myanmar è lontano (culturalmente, oltre che geograficamente) e
per noi – per noi italiani alle prese con i guai di casa, per noi che, con l’eccezione
dei missionari, non abbiamo mai messo piede a quelle latitudini – dimenticare
è fin troppo facile.
Dimenticare Myanmar? A parole nessuno lo vuole. Anche la "Ue" minaccia
sanzioni, ma prudentemente si riserva di vedere come finirà la visita di
Gambari, l’inviato dell’Onu.
Eppure, il rischio che la tragedia di quel popolo scivoli inesorabilmente dalla
lista delle notizie "calde", dalle priorità delle agende politiche,
dall’elenco delle "cause" di moda, esiste. Eccome.
Perciò, dopo il pugno allo stomaco è l’ora delle luci accese, degli sguardi
puntati. Il Myanmar ha già conosciuto l’ora dell’improvvisa notorietà. Ma,
ogni volta, ha sperimentato la fugacità dell’attenzione mondiale, la
volubilità dell’appoggio internazionale. È accaduto per le proteste dell’agosto
1988 contro i militari. Di lì a tre anni il mondo riscoprì quella terra (cui
nel frattempo la dittatura aveva cambiato il nome originale, Birmania), quando
nel 1991 il "Nobel" della Pace venne attribuito alla "farfalla d’acciaio"
Aung San Suu Kyi. Se negli ultimi anni il Myanmar ha fatto breccia nei
"media" è stato molto spesso perché giornali e tv hanno dato conto
dell’odissea di questa donna, che ha passato anni agli arresti domiciliari
senza perdere nulla del suo coraggio.
Per il resto, agli oltre cinquanta milioni di cittadini di quel Paese dalla
storia convulsa, è toccata la sorte di "desaparecidos".
Ebbene. Sperare in un cambiamento politico reale in Myanmar senza agire sui
Paesi vicini, in "primis" sulla Cina, sarebbe utopistico. È stato
detto e ripetuto. Ora è il momento dei fatti. Non c’è bisogno del
"tackle" scivolato, violento; sarebbe già molto un
"pressing" costante.
Quel che oggi serve alla causa del popolo birmano è innanzitutto un
"assedio mediatico" alla fortezza-Myanmar, protetta dalla complicità
dei suoi ingombranti vicini.