Nel mirino dei
militari la minoranza "karen".
L’anno scorso 76mila persone allontanate dalle proprie case.
Molte famiglie portate in "campi",
dove si trova poco cibo e manca qualunque tipo di assistenza.
Chi si ribella viene ucciso.
L’impegno della "Cisl" per sostenere i profughi,
e denunciare a livello internazionale le violazioni dei "diritti
umani".
La
testimonianza degli esuli in Thailandia: «Rapiti e costretti a lavorare per il
"regime"».
Saw Thaw è fuggito, camminando per 5 giorni nella giungla:
«Costruiamo strade e raccogliamo frutta sotto la minaccia delle armi.
Mandati senza protezioni a individuare i "campi minati"».
Da
Mae Sot (Thailandia), Chiara Zappa
("Avvenire",
20/4/’08)
Saw Thaw ha le braccia magrissime
e il viso scavato. I militari al governo nel suo Paese, il Myanmar,
usano la gente come lui per costruire le strade e le infrastrutture che sono
fiore all’occhiello del regime, per "sminare" i terreni e portare
sulle spalle, per giorni e giorni senza sosta, i rifornimenti dell’esercito,
ma non gli danno niente da mangiare. «Qualche volta, un po’ di latte
condensato da sciogliere nell’acqua. Invece che sterminarci, ci uccidono
indirettamente. E nel frattempo sfruttano il nostro lavoro».
Saw Thaw Thi Bweh è un "karen", fa parte cioè di una delle minoranze
etniche più numerose della ex Birmania
(circa il 10% della popolazione), che da 60 anni combatte per il riconoscimento
della propria identità e l’"autodeterminazione" e che la giunta, al
potere dal 1963, ha sempre perseguitato con ferocia. Due anni fa, i militari
dell’"Spdc" – "Consiglio di stato per la pace e lo
sviluppo", come si è "autobattezzato" il regime – fecero
irruzione nel suo villaggio, un "insediamento" di 144 famiglie nel
distretto di Nyaung Lay Bin, Stato "Karen", nel Sud-est del Paese. E
la sua vita si trasformò in un inferno. «I soldati rasero al suolo il
villaggio, bruciarono le nostre case e tutto quello che avevamo e ci costrinsero
a metterci in marcia».
La meta, anche se ancora Saw Thaw non lo sapeva, sarebbe stata un "campo di
rilocazione" nei pressi della "base militare" di Zaw Tay Der.
«Durante il cammino, i soldati di tanto in tanto aprivano il fuoco verso di noi
per terrorizzarci, per dissuaderci dalla fuga. Come si fa con animali
selvaggi». Saw Thaw parla con calma. Ha ancora il terrore negli occhi e i
"patimenti" stampati sul corpo denutrito, ma il suo racconto è
preciso e asciutto: del resto, ciò che gli preme è denunciare, con dovizia di
particolari, la "pulizia etnica" in atto nei confronti del suo popolo.
Secondo l’organizzazione "Thailand Burma Border Consortium", solo
nel 2007 sono stati 76mila i "karen" costretti a fuggire dalle loro
case e almeno 167 villaggi sono stati distrutti, mentre si calcola che siano
oltre mezzo milione i rifugiati interni nell’est del Myanmar, che vivono
nascosti in condizioni "disumane" nella giungla e spesso sono vittime
di violenze, torture, stupri sistematici ed esecuzioni indiscriminate. Chi
sopravvive, diventa un lavoratore forzato. Come Saw Thaw, che qualche settimana
fa, spinto dalla disperazione, ha deciso di correre il rischio della fuga: dopo
cinque giorni di cammino ininterrotto attraverso la giungla, è riuscito a
raggiungere Mae Sot,
cittadina thailandese proprio sulla frontiera con la Birmania. Frontiera che qui
è un "colabrodo" da cui passano – non certo solo attraverso il
collegamento ufficiale sul "Ponte dell’amicizia" che unisce le
sponde del fiume Moei – uomini esasperati alla ricerca di un lavoro qualsiasi,
ma anche "contrabbandieri" di sigarette, pietre preziose e chissà che
altro. Proprio qui – base relativamente "protetta" per i dissidenti
in esilio e per quegli attivisti che lavorano per i "diritti umani"
muovendosi costantemente (e clandestinamente) tra la "madrepatria" e
la Thailandia
– si è tenuto nei giorni scorsi il "Forum di consultazione" delle
organizzazioni birmane impegnate per un processo di
"democratizzazione" nel "Paese dei generali", una realtà
che comprende la "National League for Democracy" di Aung
San Suu Kyi, il
governo in esilio, l’associazione dei "giuristi", le comunità delle
minoranze etniche, i sindacati clandestini, le organizzazioni giovanili e
femminili.
A margine del "seminario", organizzato con il sostegno del sindacato
italiano "Cisl"
che da anni è impegnato a fianco delle locali realtà democratiche, abbiamo
incontrato Saw Thaw, arrivato fin qui alla ricerca degli attivisti dell’"Ftuk"
("Federation of Trade Unions-Kawthoolei"), il sindacato clandestino
"karen", i cui membri riescono talvolta a raggiungere in incognito i
"campi" e a raccogliere le testimonianze dei prigionieri.
«Nel "villaggio-ghetto" le persone vivono in condizioni disumane: non
c’è cibo, la situazione igienica e sanitaria è drammatica, le medicine
mancano. A turni di una settimana, gli uomini vengono obbligati a lasciare il
"campo" per andare a lavorare nella giungla», racconta Saw Thaw. Che
ricorda: «I soldati ci facevano tagliare gli alberi per spianare la via ai
veicoli dell’esercito, costruire strade, raccogliere la frutta e portare i
rifornimenti. Altre volte ci obbligavano a camminare davanti ai mezzi militari,
per la paura di imbattersi in "campi minati". Una volta un mio
compagno di lavoro è saltato su una mina. Ha perso la vista e una gamba, non
può più lavorare e non riesce a procurare il cibo per la sua famiglia».
Ma non c’è scelta: chi si rifiuta di obbedire agli ordini rischia la tortura
o addirittura la morte. In Myanmar non serve un buon motivo per venire
giustiziati. «Capita che i soldati sparino a un uomo senza nessuna ragione,
solo per "rimarcare" che hanno il potere di vita o di morte su di
noi». Certo, chi possiede un certo carisma o una particolare autorevolezza
corre un rischio maggiore di essere fatto sparire. Saw Thaw ricorda il religioso
cristiano Saw Wah Shee: «Un giorno, mentre stava tornando dalla raccolta della
frutta, i militari sono arrivati e lo hanno "trucidato". Così, senza
motivo».
È un clima di terrore continuo, a cui quest’uomo allo stremo delle forze è
riuscito a sfuggire. Ma solo temporaneamente. «Al "campo" ho ancora
mia moglie, e quattro bambini», confessa Saw Thaw. Che evita di raccontare ciò
che immaginiamo possa aver subito la giovane moglie: a parlare al suo posto sono
i rapporti stilati in questi anni da diverse organizzazioni per i "diritti
umani", che documentano migliaia di casi di stupri, utilizzati come arma di
guerra contro le minoranze etniche. «Il mio piano è tornare a riprendere la
mia famiglia per portarla qui, in un "campo" per rifugiati». Un piano
difficile. Comunque vada, Saw Thaw ha fatto uscire dai confini birmani la sua
testimonianza, che non si fermerà qui. «Noi raccogliamo costantemente
informazioni sull’uso del "lavoro forzato" e sulle violazioni dei "diritti
umani" perpetrate dal regime, per poi girarle alla federazione
"globale" dei sindacati e all’"Organizzazione internazionale
del lavoro"», spiega Saw Ywa Hay, segretario generale dell’"Ftuk".
E la responsabile per l’Asia della "Cisl", Cecilia Brighi, membro
del "Consiglio di amministrazione" della stessa "Oil", al
"Forum" ha assicurato l’impegno da parte dell’istituzione: «Intendiamo
denunciare la giunta alla "Corte internazionale di giustizia", perché
il "lavoro forzato" è un crimine contro l’umanità». Saw Thaw, e
migliaia come lui, continuano a sperare che qualcuno, finalmente, si accorga di
questo crimine. E decida di fare qualcosa per fermarlo.