L’insospettabile energia dei monaci buddhisti e la solidarietà della gente…
Gerolamo
Fazzini
("Mondo e
Missione", Novembre 2007)
«Guardiamo a questi monaci, e
alla gente che inerme fronteggia con loro l’esercito birmano, e li sentiamo
come maestri. Maestri, sì, perché noi siamo e restiamo sempre discepoli:
ovunque una lezione abbia il profumo del Vangelo - cioè esprima tenerezza e
cura per la vita dell’uomo - , la accogliamo pieni di gratitudine». È il
passaggio-chiave di un documento diffuso nelle scorse settimane dai "Centri
missionari diocesani" e dal "Segretariato unitario di animazione
missionaria" ("Suam") della Lombardia. Un documento intenso, che
raccoglie e rilancia la «lezione di Yangon» e che volentieri facciamo nostro.
Ora che dalle prime pagine il Myanmar
è sparito, ora che la feroce repressione ha soffocato quella che è stata
chiamata la «rivoluzione dei sandali», ora che le maglie rosse di solidarietà
sono tornate nei cassetti, vale la pena fermarsi a ricordare. Per far tesoro di
una lezione - la forza debole della "non violenza", il coraggio dei
miti - che gli eventi del Myanmar ci consegnano.
È una scelta controcorrente. Nelle ultime settimane abbiamo assistito a
iniziative di denuncia e sentito proposte di azioni di «disturbo»
(boicottaggi, sanzioni…). Tutte scelte lecite, per carità. Ma fatalmente
destinate a evidenziare il negativo, ciò che manca (la libertà, la democrazia…).
Parafrasando un proverbio cinese, verrebbe da dire che in assenza di luce viene
più spontaneo e comodo maledire il buio, anziché provare ad accendere una
candela. Ma chi, come il "Pime", da 140 anni ha intessuto una storia
di amicizia con le popolazioni del Myanmar, non può non scegliere la via della
«simpatia preventiva», che conduce a cercare innanzitutto il positivo, il bene
che già esiste, anche nelle pieghe di situazioni drammatiche.
Accendere una piccola luce nel buio è quanto prova a fare, ogni giorno, un’"ong"
birmana, "Eden",
che si occupa di disabili. Tra mille difficoltà e ristrettezze, ci prova.
Sapendo che, «se non ci fossimo noi, i ragazzi disabili di Yangon non avrebbero
cure né speranza per il futuro».
La storia di "Eden" non è una curiosità esotica o un aneddoto
edificante. Per noi rappresenta un segnale prezioso: anche nell’ex Birmania
esistono volontari che si prendono cura dei deboli, un embrione di società
civile che speriamo possa consolidarsi.
In Myanmar c’è un regime dittatoriale, c’è un’eroina della resistenza
(la San
Suu Kyi) ma –
"vivaddio" - c’è anche chi si mobilita per gli altri. E c’è -
soprattutto - un popolo che lotta, silenziosamente. Stavolta ce ne siamo accorti
grazie a giornali e tivù, che ci hanno fatto scoprire l’insospettabile
riserva di energia dei monaci buddhisti. Ha scritto su "Repubblica"
Ian Buruma, un intellettuale olandese: «I monaci e le religiose hanno osato
protestare quando la maggior parte degli altri si era data per vinta. E lo hanno
fatto con l’autorità morale della loro fede buddhista». Da cristiani
leggiamo tutto ciò con piacevole sorpresa: ci rafforza nella convinzione che lo
Spirito soffia dove vuole. Imprevedibilmente. Per i monaci e per quanti si sono
"assiepati" lungo le vie delle città birmane in segno di
solidarietà, possiamo allora scomodare una categoria un po’ fuori moda:
quella degli «uomini di buona volontà», profeti silenziosi di un «altro
mondo», fondato su giustizia e solidarietà.
Un’ultima annotazione la dobbiamo al priore di "Bose", Enzo
Bianchi. Che sulla
"Stampa" ha scritto: «Persone che noi frettolosamente giudichiamo
"fuori dal mondo", si rivelano le più capaci di cogliere le radici di
un disagio e di una insostenibilità della vita, quelle maggiormente in grado di
dare voce - paradossalmente attraverso il silenzio - al grido soffocato dell’oppresso,
di farsi carico della sofferenza e della dignità di un’intera nazione».