Myanmar
La cortina del silenzio cala sul regime
birmano
Dopo settimane le "tuniche rosse" dei religiosi sono riapparse a Pakkoku.
Da
Bangkok, Stefano Vecchia
("Avvenire",
16/12/’07)
Sul Myanmar,
Paese che chi lo governa vorrebbe chiuso e impermeabile e che invece nell’attenzione
del mondo alle sue vicende vede la vera speranza di riscatto, umiliato da
decenni di regime militare, prostrato ma non sottomesso dalla repressione che
dura da 45 anni, sembra essere sceso il silenzio. Erano stati i monaci buddisti
ad avviare a metà agosto il "braccio di ferro" tra società civile e giunta
militare seguìto all’impennata dei prezzi del carburante che aveva innescato
una catena di aumenti non sopportabili da una popolazione già allo stremo.
Erano stati loro a sostenere le prime cariche per strada ed erano stati loro ad
essere assaliti nel sonno, arrestati a centinaia e imprigionati sotto condizioni
durissime quando a fine settembre il regime decise che il tempo era scaduto, che
anche la speranza di democrazia o la pietà dei monaci erano più di quanto i
birmani potessero chiedere. Dopo settimane di silenzio, le "tuniche
rosse" dei religiosi birmani sono riapparse sporadicamente a ottobre e poi
a novembre, in particolare a Pakkoku, nella regione centrale a rivendicare un
ruolo che è insieme diritto e dovere.
Non a caso, perché proprio a Pakkoku, il 6 settembre, gruppi di religiosi fatti
oggetto di maltrattamenti, avevano preso in ostaggio per diverse ore una ventina
di poliziotti, dando avvio alle proteste i piazza che dovevano essere fermate
nel sangue tre settimane dopo. Nel Myanmar della repressione la vita sembra
avere ripreso il suo corso, ogni giorno un po’ più in discesa, ma forse non
è così.
Contrariamente all’agosto 1988, quando la rivolta degli studenti e le tremila
vittime della repressione vennero presto cancellate dalla memoria dell’Occidente
e ancor più rapidamente da quelle di un’Asia in coda per accedere alle
risorse birmane, oggi il regime sembra avere soltanto in superficie bloccato la
protesta. I monaci dissidenti sono presenti con diversi gruppi in parte
coordinati tra loro; i movimenti di dissidenza politica che fanno riferimento al
premio "Nobel" per la Pace Ang
San Suu Kyi sono
più visibili, ora, e a maggior ragione intenzionati a mantenere rapporti con le
organizzazioni di esuli e, soprattutto, con le diplomazie internazionali e le
organizzazioni che ne riconoscono il ruolo; le minoranze etniche hanno ricevuto
uno stimolo a una maggiore condivisione, anche delle loro risorse difensive. Da
loro, e da un ruolo attivo della diplomazia internazionale il Myanmar può
sperare di trovare una via d’uscita da una dittatura feroce che dal 1962 non
solo reprime ogni istanza democratica e ogni speranza di aderire a un consesso
continentale che va imponendosi nel pianeta, ma che ha trascinato una delle
realtà più promettenti dell’Asia "post-coloniale" oltre il baratro
del "sottosviluppo". L’ex Birmania
è tra i 20 Paesi più poveri al mondo e il 10% della sua popolazione soffre la
fame, mentre rubini, diamanti, risorse petrolifere, legname e oppio acquistano
armi e più strette dipendenze da vicini come la Cina
e l’India. Risorse che anziché essere benefiche risultano una maledizione per
milioni di tribali da decenni in lotta contro il governo centrale, che hanno la
sfortuna di trovarsi nelle aree di provenienza di queste materie prime e, ancor
più in quelle destinate a "velleitari" «progetti di sviluppo», tra cui le
immense dighe sul Salween che porteranno energia idroelettrica alla Thailandia e
fino alla lontana Singapore e fiumi di dollari nelle tasche dei generali al
potere.