Conferenza Episcopale Italiana
Lettera
I - LE DOMANDE CHE CI UNISCONO | II - |
III - COME INCONTRARE IL DIO DI GESÙ CRISTO |
1. FELICITÀ E SOFFERENZA | 6. GESÙ | 11.
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2. AMORE E FALLIMENTI | 7. IL CRISTO | 12. L’ASCOLTO DELLA PAROLA DI DIO |
3. LAVORO E FESTA | 8. DIO PADRE, FIGLIO E SPIRITO | 13. I SACRAMENTI, LUOGO DELL’INCONTRO CON CRISTO |
4. GIUSTIZIA E PACE | 9.
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14. IL SERVIZIO |
5.
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10.
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15.
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Questa
“Lettera ai cercatori di Dio” è stata preparata per iniziativa della
Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi
della Conferenza Episcopale Italiana, come sussidio offerto a chiunque voglia
farne oggetto di lettura personale, oltre che come punto di partenza per
dialoghi destinati al primo annuncio della fede in Gesù Cristo, all’interno
di un itinerario che possa introdurre all’esperienza della vita cristiana
nella Chiesa. Il Consiglio Episcopale Permanente ne ha approvato la
pubblicazione nella sessione del 22-25 settembre 2008.
Frutto
di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti,
catecheti ed esperti nella comunicazione,
Il
testo parte da alcune domande che ci sembrano diffuse nel vissuto di molti, per
poi proporre l’annuncio cristiano e rispondere alla richiesta: dove e come
incontrare il Dio di Gesù Cristo? Ovviamente,
X
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio
e la catechesi
(Audio)
Premessa
Come
credenti in Gesù Cristo, animati dal desiderio di far conoscere colui che ha
dato senso e speranza alla nostra vita, ci rivolgiamo con rispetto e amicizia a
tutti i cercatori di Dio. Li riconosciamo in tanti uomini e donne del nostro
tempo, guardando alla situazione di inquietudine diffusa, che non ci sembra
possibile ignorare. È un’inquietudine che abbiamo riconosciuta anche in noi
stessi e che si esprime nella domanda, presente nel cuore di molti: Dio, chi sei
per me? E io chi sono per te?
Ci
rendiamo conto che, abitualmente, questa domanda viene espressa con parole molto
diverse da quelle appena accennate. Sappiamo anche che a volte è soffocata,
disturbata, fraintesa o sembra lanciata inutilmente, verso orizzonti
indecifrabili. Abbiamo però l’impressione che l’interrogativo sul mistero
ultimo che tutti ci avvolge, e di conseguenza sul senso della nostra esistenza,
sia veramente diffuso. Ci preoccupa anzi il dover constatare che a volte e per
ragioni diverse esso venga spento sul nascere o corra il rischio di insabbiarsi.
È
questo che ci ha sollecitati a scrivere una “lettera” a coloro che cercano e
spesso faticano a trovare una risposta alle domande più profonde del loro cuore
e anche a coloro che non cercano più, rassegnati o delusi. Vorremmo fosse un
dialogo tra amici, lo spunto per trovarsi a riflettere insieme con verità e
trasparenza. Una “lettera” che è piuttosto un insieme di lettere, un po’
come lo sono alcune dell’apostolo Paolo, per usare un esempio familiare a chi
conosce le Sacre Scritture.
Chiediamo
a chi leggerà queste pagine di interpretarle come un gesto di amicizia. Le
abbiamo intitolate “Lettera ai cercatori di Dio”, perché riteniamo che chi
cerca ragioni per vivere, in qualche modo e nel profondo della sua attesa cerchi
Dio: vogliamo proporre una strada per incontrare Gesù, il Cristo, il Figlio del
Dio vivente venuto fra noi, colui che sovverte i nostri schemi e le nostre
attese, ma è anche il solo che riteniamo possa darci l’acqua che disseta per
la vita eterna.
Si
tratta dunque:
-
di
un invito a riflettere insieme sulle domande che ci uniscono
(parte I);
-
di
una testimonianza, tesa a rendere ragione della speranza che è in noi
(parte II);
-
di
una proposta fatta a chi cerca la via di un incontro possibile con il Dio di Gesù
Cristo (parte III).
(Audio)
In
questa prima parte, cerchiamo di dare uno sguardo al cuore di tutti,
capace di andare oltre le apparenze. Constatiamo così la presenza di una
diffusa attesa di qualcosa – o di Qualcuno – cui si possa affidare il
proprio desiderio di felicità e di futuro, e che sia in grado di
dischiuderci un senso, tale da rendere la nostra vita buona e degna di
essere vissuta. Non
possiamo certamente dimenticare che questo sogno di felicità e di futuro
viene percepito in modi diversissimi e si manifesta con tanti nomi.
Dobbiamo cercare di decifrarlo, organizzandolo intorno ad alcune domande
concrete. Abbiamo scelto degli interrogativi, che ci sembrano attraversare
eventi, persone, esperienze di gioia e di limite, riconoscibili nella vita
di ognuno. Si tratta delle domande che riguardano la nostra esistenza, il nostro destino e il senso di ciò che siamo e facciamo, oltre che di tutto ciò che ci circonda. Sono interrogativi che, per essere veramente affrontati, richiedono il coraggio della ricerca della verità e la libertà del cuore e della mente. Come discepoli di Gesù, ci sembra di poter discernere in queste molteplici attese una forte domanda di incontro con il Dio che lui ci ha rivelato. |
1.
FELICITÀ E SOFFERENZA
Siamo cercatori di felicità, appassionati e mai sazi. Questa inquietudine ci accomuna tutti. Sembra quasi che sia la dimensione più forte e consistente dell’esistenza, il punto di incontro e di convergenza delle differenze. Non può essere che così: è la nostra vita quotidiana il luogo da cui sale la sete di felicità. Nasce con il primo anelito di vita e si spegne con l’ultimo. Nel cammino tra la nascita e la morte, siamo tutti cercatori di felicità.
Certo,
questa esperienza comune si frastaglia in mille direzioni differenti. Tutti
possiamo riconoscerci nel bisogno di felicità: ma quale felicità cerchiamo?
come la cerchiamo? quali strumenti ce ne assicurano il possesso? e gli altri, in
questa appassionata ricerca, che posto hanno?
Qualcuno
ha accusato la tradizione cristiana di opporsi alla voglia di felicità, di
guardare eccessivamente al futuro dimenticando il presente. Qualche volta è
stato contestato ai credenti in Cristo l’eccessivo prezzo da pagare per
assicurare la felicità, o si sono loro rimproverati i modelli dal sapore
rinunciatario, persino un poco masochista, presentati come condizione per
raggiungere la felicità. Qualcuno è arrivato alla decisione di dover liberare
l’uomo da Dio per restituirgli il diritto alla felicità.
Le
provocazioni ci sfidano e ci aiutano a pensare, facendoci riscoprire alla radice
dell’esperienza cristiana la figura di Gesù, che ci ha offerto il volto di un
Dio amante della vita e della felicità dell’uomo. Peraltro, le crisi nel
rapporto tra vita e felicità non riguardano solo noi cristiani. Chiunque ama la
vita e cerca la gioia duratura per sé e per gli altri, non riuscirà certamente
ad accontentarsi di proposte che legano la felicità unicamente al possesso,
alla conquista, al potere, al solo piacere, all’egoismo personale o di gruppo.
L’esperienza
della fragilità
Come
credenti, abbiamo una convinzione irrinunciabile, che ci viene dalla nostra
esperienza cristiana. Su di essa cerchiamo il confronto con tutti coloro che
preferiscono la vita alla morte e cercano la felicità come la qualità profonda
di questa stessa vita. La vita è bella nonostante tutte le prove e le
disavventure, perché esistiamo e sperimentiamo l’amore.
Non
per tutti, certo, è così. La vita è segnata in tutte le sue fasi e le sue
forme dalla fragilità: la fragilità del
nascituro, del bambino, dell’anziano, del malato, del povero,
dell’abbandonato, dell’emarginato, dell’immigrato, del carcerato. In tutte
le età ci sono sofferenze fisiche, psichiche, sociali. Come avviene per la
felicità, anche l’esperienza del dolore ci accomuna tutti.
Come
in ogni situazione umana si sperimenta la fragilità, così ogni ambiente vitale
è frutto di un fragile equilibrio. Nei volti delle famiglie ci sono spesso più
lacrime da asciugare che sorrisi da raccogliere. Nella vita ci sono sofferenze
che arrivano contro ogni nostra aspettativa e ci sono anche sofferenze che
nascono dai nostri errori e dalle nostre colpe, quelle che costruiamo con le
nostre mani: quando, ad esempio, diamo la prevalenza all’avere sull’essere;
quando ci carichiamo di cose inutili; quando diamo la precedenza alle cose sulle
persone, agli interessi materiali sugli affetti.
La
fragilità rimane una grande sfida:
da sempre essa ha suscitato interrogativi, problemi, dubbi. Un personaggio della
Bibbia è diventato una sorta di riferimento per coloro che hanno il coraggio di
riflettere sul dolore. Si tratta di Giobbe: con il suo nome chiamiamo chi soffre
ingiustamente e chi giustamente ha motivi per lamentarsi. Con Giobbe ci
chiediamo: perché dobbiamo soffrire e morire?
Molti
non conoscono le parole che
Perisca il
giorno in cui nacqui…
Perché non sono morto fin dal seno di mia madre
e non spirai appena uscito dal grembo?
Perché due ginocchia mi hanno accolto,
e due mammelle mi allattarono? …
Come lo schiavo sospira l’ombra
e come il mercenario aspetta il suo salario,
così a me sono toccati mesi di illusione
e notti di affanno mi sono state assegnate…
Ricordati che un soffio è la mia vita,
il mio occhio non rivedrà più il bene.
(Giobbe 3,3. 11-12; 7,2-3. 7)
Quale
felicità?
Facciamo
fatica ad accettare la scuola della sofferenza per
scoprire che cosa sia la vita e la felicità. Nonostante tutte le nostre
riflessioni e le nostre proteste, infatti, la debolezza, il dolore, la morte
rimangono un mistero.
La
cultura moderna, non sapendo dare una risposta a queste sfide, cerca di
nasconderle con l’ebbrezza del consumismo, del piacere, del divertimento, del
non pensarci. In tal modo, però, si nega il significato profondo della
debolezza e della vulnerabilità umane e se ne ignora sia il peso di sofferenza,
sia il valore e la dignità: e questo rende interiormente aridi e induce a
vivere in modo superficiale.
L’esperienza
della fragilità, del limite, della malattia e della morte può insegnarci
alcune cose fondamentali. La prima è che non
siamo eterni: non siamo in questo mondo per rimanerci per sempre; siamo
pellegrini, di passaggio. La seconda è che non
siamo onnipotenti: nonostante i progressi della scienza e della tecnica,
la nostra vita non dipende solo da noi, la nostra fragilità è segno evidente
del limite umano. Infine, l’esperienza della fragilità ci insegna che i
beni più importanti sono la
vita e l’amore: la malattia, ad esempio, ci costringe a mettere nel giusto
ordine le cose che contano davvero.
La fragilità è una
grande sfida anche per la fede nel Dio di Gesù Cristo. Il Signore ci ha
creati per la vita, per la felicità. Perché, allora, permette il dolore,
l’invecchiamento, la morte? Quante domande di fronte a un dolore o a un lutto
che fa sanguinare il cuore! Si può perfino dire che la sofferenza e la morte
sono la più grossa sfida contro Dio. C’è chi si è dichiarato “ateo” per
amore di Dio, per giustificare la sua assenza e il suo silenzio davanti al
dolore innocente.
Che cosa possiamo
sperare?
Le
domande si moltiplicano. Ciascuno ha le proprie. A pensarci bene, cambiano le
parole, ma il grido resta, comune e condiviso da tutti: abbiamo una gran voglia
di vita, di felicità, di sicurezza e di tranquillità, e il dolore, la fragilità
e la morte sembrano fatti apposta per distruggere tutto questo. Dobbiamo
rassegnarci? Spegnere la voglia di vita, raffreddando i nostri slanci? Dobbiamo
riconoscere che questa non è la nostra casa e rimandare tutto a un dopo, a
quando saremo finalmente a casa?
Ma
questa casa, lontana e non sperimentabile, c’è davvero o resta
un’illusione, più o meno com’è per tanti tentativi che costruiamo con le
nostre pretese e che ci lasciano l’amaro in bocca? Qualcuno va oltre,
pensando: smettiamola di sognare e accontentiamoci di quello che possiamo avere
tra le mani. Pazienza, poi, se dobbiamo sottrarlo, violentemente o astutamente,
ad altri. Questa è la vita. Non è più saggio rassegnarsi?
La
nostra esperienza quotidiana è spesso tentata di cadere nella rassegnazione e
nel cinismo, eppure si spalanca continuamente verso una forte necessità di
speranza. Ma che cosa significa sperare? La speranza ha a che fare con la gioia
di vivere. Suppone un futuro da attendere, da preparare, da desiderare. Sentiamo
che la speranza richiede e suscita unità nel cuore: dà senso e motiva ogni
nostro sentimento, ogni nostra aspirazione, ogni nostro progetto. Promuove anche
unità nella storia: nelle tante cose che pensiamo e che facciamo ogni giorno ci
può essere un filo conduttore che collega e illumina tutto quanto. Se c’è
speranza, c’è pazienza e c’è la vigilanza che sa vagliare e spinge
all’impegno in ogni cosa.
Non
si può vivere senza speranza: sarebbe come vivere senza riuscire a dare una
prima iniziale risposta all’interrogativo “perché sono al mondo”? Tutti
abbiamo bisogno di un orizzonte di senso, per dire qualcosa di vero sul nostro
futuro. Ha senso sperare che ciò che desideriamo si attui; così pure ha senso
sperare di avere successo nei singoli aspetti su cui puntiamo. C’è una
speranza a livello personale e c’è una speranza a livello storico-cosmico. Il
tempo e le circostanze sono importanti per dare un contesto e un contenuto alle
nostre speranze.
C’è
una speranza che nasce e cresce grazie ai rapporti con le persone; anzi certi
rapporti, aperti al dialogo e alla collaborazione, generano speranza, perché ci
fanno sentire accolti e cercati e ci stimolano all’azione. Ma è possibile
pensare e desiderare la speranza come dono che viene a noi in modo
imprevedibile, come intervento non soltanto umano? Un dono che trascende le
nostre possibilità, la nostra progettualità, i nostri orizzonti?
Nei momenti più felici, come in quelli più profondi, anche quando sono sofferti, sogniamo una speranza che crede e che ama: la speranza di chi si sente amato, cercato, sostenuto nel quotidiano, in un crescendo di senso, di gioia, di operosità costruttiva, che va oltre la fine di tutto. È questa la speranza che viene da Dio?