Conferenza Episcopale Italiana
Lettera
I - LE DOMANDE CHE CI UNISCONO | II - |
III - COME INCONTRARE IL DIO DI GESÙ CRISTO |
1. FELICITÀ E SOFFERENZA | 6. GESÙ | 11.
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2. AMORE E FALLIMENTI | 7. IL CRISTO | 12. L’ASCOLTO DELLA PAROLA DI DIO |
3. LAVORO E FESTA | 8. DIO PADRE, FIGLIO E SPIRITO | 13. I SACRAMENTI, LUOGO DELL’INCONTRO CON CRISTO |
4. GIUSTIZIA E PACE | 9.
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14. IL SERVIZIO |
5. |
10.
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15.
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5.
La
nostra esistenza è attraversata da domande inquietanti, personali e collettive.
Ci siamo soffermati su alcune di esse: alla radice di questi interrogativi,
quelli che aprono verso la luce e quelli che ci lasciano al buio, possiamo
immaginare la presenza di un punto unificante, una specie di orizzonte, capace
di fare unità nel groviglio di ogni avventura umana?
Ci
sembra che alla radice di ogni esistenza ci sia una domanda di senso e di
speranza, particolarmente drammatica oggi, perché si sono infranti quei
processi attraverso cui il contesto culturale e sociale suggeriva piuttosto
facilmente il significato dell’esistenza. Siamo diventati più maturi e
insieme più soli. Resta il bisogno di organizzare i frammenti, come le tessere
di un mosaico.
Molti
sembrano rassegnati e vivono alla giornata come se la questione del senso della
vita e di un orizzonte unificante fosse ormai irrilevante. Altri riscoprono la
domanda in situazioni estreme e poi la lasciano cadere senza troppe
preoccupazioni. I discepoli di Gesù, che credono alla vita e la amano, si
sentono interpellati a questo livello proprio sulla loro identità. Evadere la
ricerca di senso o rassegnarsi a una mancanza di speranza vuol dire impoverire
la qualità della vita per sé e per gli altri.
Oltre
la domanda di senso e di speranza
Nel
profondo della domanda di senso e di speranza, qualcosa ci orienta verso il
mistero: Dio, chi sei? Dove sei? Come possiamo vedere il tuo volto? Il problema
non è se Dio esista o non esista. Non ci serve constatare la presenza o
l’assenza di qualcuno che sta lontano, a contemplare le cose fuori dalla
mischia, impassibile.
Ci
chiediamo chi è Dio quando veniamo a sapere di eventi terribili, che non
dipendono da una cattiva volontà. Ci diciamo allora: chi sei? Dov’è finito
il tuo amore, se tanti innocenti piangono e non sanno nemmeno contro chi
imprecare? Ce lo chiediamo quando decidiamo di prendere tra le mani la nostra
esistenza, trascinati come siamo tra sogno e realtà. Chi sono io, che mi scopro
sempre più indecifrabile? C’è un nesso tra l’uomo che sono e Dio?
La
domanda risuona inquietante quando ci interroghiamo sul futuro della nostra vita
e della nostra storia, quando guardiamo sgomenti gli uomini spariti nel nulla,
sotto il piede ingiusto di altri uomini. Abbiamo scoperto quanto la domanda su
Dio abbia il sapore dell’attesa. Ci interroghiamo sul mistero ultimo, perché
ci sembra onestamente di non poter bastare a noi stessi e guardiamo al futuro
con trepidazione.
Una
constatazione però è consolante e va evidenziata a sostegno della speranza:
anche moltissimi di coloro che non sono ancora riusciti a maturare una risposta
alla domanda sul senso della vita accolgono la propria vita e la amano. Hanno
fiducia nella vita e si affidano alle sue trame misteriose, perché ritengono
che la vita sia bella. In realtà, quelli che si rassegnano al dubbio o alla
rinuncia totale sono forse meno di quanto si possa pensare. Per lo più
continuiamo a cercare sapendo, magari inconsapevolmente, di essere già
afferrati: la risposta che cerchiamo è nella vita che viviamo. Vivere con
consapevolezza e responsabilità richiede già un grande atto di fede. Aumentare
questa fede, spingerla oltre se stessa vuol dire aprirsi a Colui che ci chiama
dal profondo di ciò che siamo e che ha fatto risuonare la sua voce nel tempo
per ognuno di noi.
La
possibilità della fede
“Aumenta
la nostra fede!” A
questa richiesta degli Apostoli - voce di tutti coloro che sono alla ricerca di
Dio con umiltà e desiderio - Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte:
‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà
impossibile” (Matteo 17,20). Credere non è anzitutto assentire a una
dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa
che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento. Credere è
fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita,
rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne
l’unico, vero Signore.
Crede
chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere
posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo
di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci
cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere,
allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena
luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio,
ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo
dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le
mie braccia!” (Søren Kierkegaard).
Eppure,
credere non è un atto irragionevole. È anzi proprio sull’orlo di
quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece
di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio
ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di
queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore
all’invisibile amante che chiama.
Lottare
con Dio
In
questa lotta con l’invisibile il credente vive la sua più alta prossimità
all’inquieto cercatore di Dio: si potrebbe perfino dire che il credente è un
ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. In realtà, chi crede ha
bisogno di rinnovare ogni giorno il suo incontro con Dio, nutrendosi alle
sorgenti della preghiera, nell’ascolto della Parola rivelata. Analogamente, si
può pensare che il non credente pensoso nient’altro sia che un credente che
ogni giorno vive la lotta inversa, la lotta di cominciare a non credere: non
l’ateo superficiale, ma chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce il
dolore dell’assenza di Dio, e si pone come l’altra parte del cuore di chi
crede.
Da
queste considerazioni nasce il no alla negligenza della fede, il no a una fede
indolente, statica e abitudinaria, come il no a ogni rifiuto ideologico di Dio,
a ogni intolleranza comoda, che si difende evadendo le domande più vere, perché
non sa vivere la sofferenza dell’amore. E nasce parimenti il sì a una fede
interrogante, a una ricerca onesta, capace di rischiare e di consegnarsi
all’altro, quando ci si senta pronti a vivere l’esodo senza ritorno verso
l’abisso del mistero di Dio, su cui la sua Parola è porta.
Se
c’è una differenza da marcare, allora, non sarà forse tanto quella tra
credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che
hanno il coraggio di cercare incessantemente Dio e uomini e donne che hanno
rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte
penultimo e non sanno più accendersi di desiderio al pensiero dell’ultima
patria. Qualunque atto, anche il più costoso, sarebbe degno di essere vissuto
per riaccendere in noi il desiderio della patria vera e il coraggio di tendere a
essa, sino alla fine, oltre la fine, sulle vie del Dio vivo.
Credere
sarà allora abbracciare
La
fede come ricerca e come pace
Alla
fede ci si avvicina con timore e tremore, togliendosi i calzari, disposti a
riconoscere un Dio che non parla nel vento, nel fuoco o nel terremoto, ma
nell’umile voce di silenzio, come fu per Elia sulla santa montagna (cf. 1 Re
19) ed è stato, è e sarà per tutti i santi e i profeti. Credere, allora, vuol
dire perdere tutto? Non avere più sicurezza, né discendenza, né patria?
Rinunciare a ogni segno e ad ogni sogno di miracolo? A tal punto è geloso il
Dio dei credenti? Così divorante è il suo fuoco? Così buia la sua notte? Così
assoluto il suo silenzio?
Rispondere
di sì a queste domande sarebbe cadere nella seduzione opposta a quella di chi
cerca segni a ogni costo; sarebbe un dimenticare la tenerezza e la misericordia
di Dio. C’è sempre una luce per rischiarare il cammino: un grande segno ci è
stato dato, il Cristo, che vive nei mezzi della grazia e dell’amore confidati
alla famiglia dei suoi discepoli,
Testimoniare
la fede non sarà, allora, dare risposte già pronte, ma contagiare
l’inquietudine della ricerca e la pace dell’incontro: “Ci hai fatto per te
e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in te” (Sant’Agostino, Le Confessioni, 1,1). Accettare l’invito non è risolvere tutte le
oscure domande, ma portarle a un Altro e insieme con lui. A lui è possibile
rivolgere con fiducia le parole della bellissima invocazione di sant’Agostino:
Signore
mio Dio, unica mia speranza,
fa’ che stanco non smetta di cercarTi,
ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore.
Dammi la forza di cercare,
Tu che ti sei fatto incontrare,
e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarTi.
Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza:
conserva quella, guarisci questa.
Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza;
dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare;
dove mi hai chiuso, aprimi quando busso.
Fa’ che mi ricordi di Te,
che intenda Te, che ami Te. Amen!
(De
Trinitate, 15, 28, 51).